Su questo blog il nostro amico, nonché membro della Società Italiana di Storia dello Sport, Marco Giani si è già occupato di Nazionale femminile in un articolo dedicato ai “piccoli eroi del quotidiano”, ovvero ai genitori delle #ragazzemondiali, come sono state ribattezzate le giocatrici della Nazionale protagoniste ai Mondiali di Francia 2019, e all’aiuto che hanno dato alle loro figlie per permettere loro di continuare a giocare a calcio. Questa volta Marco ci regala una riflessione più lunga e corposa su come le azzurre hanno affrontato il pregiudizio per eccellenza del calcio femminile, quello legato alla presunta omosessualità di tutte coloro che si dedicano al calcio.
Vista la ben nota difficoltà di fare coming out da parte degli sportivi maschi, una delle domande cui l’articolo cerca di rispondere è se nel caso delle donne le cose vadano in modo diverso. Lo spogliatoio emerge come un luogo ancor più inaccessibile rispetto a quanto accade in campo maschile, quasi sicuramente più protettivo nei confronti delle singole, ma separato dal resto del mondo in cui molte
calciatrici, per il solo fatto di dover “scontare” la loro scelta di praticare un gioco “maschile”, tendono a uniformarsi il più possibile alle norme eterosessiste. Altro fattore discriminante da considerare è il luogo: l’Italia, scrive Giani, è un paese “prudente”. Per questo diventa molto importante andare a cogliere come prima e dopo il buon successo mediatico del Mondiale 2019 sia cambiato il modo di comunicare scelto da alcune #ragazzemondiali. Qui la PRIMA PARTE

Il Mondiale femminile di Francia 2019 fra sessismo, omofobia, baci e coming out – di M. Giani – SECONDA PARTE

Dipende dal luogo

Se è vero che è in atto una tendenza globale per cui sportive e sportivi omosessuali «sono sempre più coinvolti/e in contesti inclusivi e dichiarano il proprio orientamento sessuale sperimentando pratiche di accoglienza e supporto»[1], quando arriviamo al calcio femminile dobbiamo fare delle precisazioni geografiche: si riscontrano velocità assai differenti, perché le calciatrici devono fronteggiare pregiudizi che hanno diverse potenze di fuoco se vivono in Italia, negli Stati Uniti o nel continente africano[2].

Partiamo dai paesi che possiamo definire “aperti” (I): in questo gruppo vanno annoverati sicuramente i paesi scandinavi, gli Stati Uniti di Abby Wambach e Megan Rapinoe[3], e il vicino Canada; a ruota seguono nazioni recentemente entrate nel club, quali il Regno Unito, la Germania e la Spagna post-zapateriana. In questi paesi non vi sono pregiudizi di sorta (o comunque non sono più mainstream e rimangono confinati entro le mura di minoranze conservatrici), e le calciatrici si sentono libere di fare coming out in merito al loro orientamento sessuale; le società sportive in cui militano sono spesso dalla loro parte e si impegnano esplicitamente in campagne LGBT. Nel gruppo dei paesi “prudenti” (II) possiamo invece mettere l’Italia: qui i pregiudizi omofobici sono ancora vivi, anche se lentamente in via di messa in discussione; muovendosi in tale contesto, le calciatrici omosessuali normalmente mantengono un atteggiamento assai prudente, nascondendo il loro orientamento sessuale (persino dopo il ritiro dall’attività agonistica), oppure rivelandolo dopo qualche tempo, e comunque senza eccessivi clamori. Nel gruppo dei paesi “chiusi” (III) possiamo, infine, annoverare realtà extra-europee, in cui i pregiudizi omofobici sono a tal punto forti che le calciatrici che si dichiarano lesbiche vanno incontro ad episodi di intolleranza, anche molto gravi. Esemplare il tragico caso occorso nell’aprile del 2008 in Sudafrica alla 31enne centrocampista della Nazionale Eudy Simelane, violentata e poi uccisa da un gruppo di uomini, intenzionati a compiere un vero e proprio stupro collettivo di gruppo contro la ragazza, che aveva fatto coming out ed era una nota attivista LGBT[4].

L’ipocrisia del women’s soccer statunitense

Nonostante quanto appena affermato circa l’atteggiamento open-minded della società statunitense in relazione a una eventuale omosessualità delle calciatrici (atteggiamento derivante anche dalla caratterizzazione “rosa” dello sport negli USA), è doveroso richiamare le incendiarie critiche mosse dalla storica del calcio Rachel Allison all’ipocrisia sottesa alla rappresentazione delle giocatrici e delle tifose da parte della Women’s Professional Soccer, durante la sua breve ma significativa esistenza (2007-2012).
I dirigenti della lega professionistica femminile statunitense, alla ricerca di un prodotto sportivo performante, fecero, infatti, delle scelte di mercato ben precise[5], individuarono come target le famiglie bianche, privilegiate socialmente, eterosessuali, possibilmente con a carico figli e figlie che giocassero a loro volta a calcio, e provarono a marginalizzare i tifosi maschi e le tifose lesbiche, appartenenti a categorie ritenute devianti rispetto al target individuato[6].

Nella rappresentazione delle calciatrici protagoniste della lega, l’accento veniva poi sempre messo su aspetti o valori quali il matrimonio, la maternità, la bellezza fisica, il lato glamour e una buona dose di professionalità, così da mostrare al pubblico quanto le giocatrici della lega fossero dotate di una eterosessualità “appropriata”. Rifacendosi a quest’analisi, Cat Ariail osserva come, nel giro di qualche anno, negli Stati Uniti ci sia stato un grosso cambiamento a riguardo, vedi le co-occorrenze delle Pride Nights e degli incontri della Nazionale femminile (nonché una più generale multiformità razziale dei supporters). D’altra parte, però, la studiosa non tace il fatto che, almeno a livello di tifoseria, queste novità non sono riuscite a cambiare il profilo della tifosa-target, che rimane tuttora la ragazza giovane e bianca dei suburbs, sempre sull’attenti per essere adeguatamente ispirata e resa forte dai propri idoli sportivi al femminile. Non a caso, molte tifose lesbiche si sentono tuttora in dovere di uniformarsi a modelli omo-normativi, tutt’altro che scomparsi[7].

Lo spogliatoio femminile: un luogo accogliente

Se il calcio femminile è stato riconosciuto dagli studiosi di calcio come un ambiente generalmente capace di fornire alle donne che si dichiarano lesbiche «a relatively safe, shared space»[8], sarà interessante provare a descrivere la situazione italiana partendo proprio dal concetto di safe space. Illuminanti in merito le parole dell’ex calciatrice tedesca Tanja Walther-Ahrens, intervistata nel 2011 da Gabriel Kuhn. Messa di fronte alla vulgata secondo cui l’omosessualità all’interno del mondo calcistico femminile è considerata meno un tabù rispetto a quanto accade fra i calciatori maschi[9], Walther-Ahrens in un primo momento rispondeva positivamente, puntualizzando però subito che ciò era vero soprattutto per la squadra e per il circolo di conoscenti della calciatrice lesbica: è, infatti, all’interno di questi ambienti che la giocatrice può parlare apertamente della propria sessualità, non all’esterno. Lo dimostrava il fatto che, al momento dell’intervista, «non [c’era] una singola giocatrice tedesca della massima serie o in Nazionale che [fosse] apertamente lesbica»[10].

Ipotizzando che la situazione dell’Italia sia simile a quella della Germania di una decina di anni fa, le dichiarazioni del 2018 di Antonio Cabrini sembrano confermare il fatto che lo spogliatoio (e non l’esterno) sia avvertito come un safe space per parlare di questi argomenti. L’ex campione del mondo, CT della Nazionale femminile italiana dal 2012 al 2017, ricorda infatti che «nei miei quasi cinque anni da c.t. non ho mai avuto problemi di alcun genere. Anzi: ne parli tranquillamente con le giocatrici, senza imbarazzo, per loro è una cosa normale»[11]. Soprattutto durante l’adolescenza e la giovinezza, lo spogliatoio può essere il luogo ove anche le calciatrici eterosessuali sono messe di fronte, grazie alle proprie compagne di squadra omosessuali, alla diversità degli orientamenti, come raccontato da Barbara Bonansea, la quale ricorda quando, allora giocatrice della Primavera del Torino (2005-2007), individuò dopo un po’ di tempo «un gruppettino di ragazze» presente all’interno dello spogliatoio: «più chiuso, più raccolto, si faceva fatica a entrare e comunicare con loro, forse si proteggevano, forse si difendevano. Erano omosessuali. E allora? Per me quelli erano, e sono, preconcetti, pregiudizi»[12].

Nel 2017 uno studio pioneristico di Jessica Pistella e Roberto Baiocco ha provato, attraverso una serie di interviste a calciatori e calciatrici italiane, a indagare il pregiudizio omofobico presente nelle comunità di spogliatoio del Belpaese, giungendo a risultati estremamente interessanti. In primis, poco più della metà delle calciatrici lesbiche dichiarava di aver rivelato il proprio orientamento omosessuale alle compagne di squadra e/o al proprio allenatore, un passo che nessuno dei calciatori gay si era sentito di fare. La differenza non stupisce: i sociologi dello sport infatti hanno da tempo descritto la tendenza globale per la quale nella percezione comune degli ambienti sportivi, «i gay maschi che fanno sport rappresentano una minaccia alla mascolinità e all’eterosessualità, mentre lo stesso discorso non può essere applicato per le atlete lesbiche»[13]. È l’azzurra Martina Rosucci, in una intervista del 2015, a descrivere così la condizione delle giocatrici omosessuali negli spogliatoi italiani di calcio: «Ce n’è… Ma è vero com’è vero che il calcio maschile è pieno di gay. Solo che gli uomini sono più protetti e meno disposti ad ammetterlo». Un peso, nella differenza, l’avrà anche il fatto che il calcio è uno sport di squadra, giacché molte ricerche dimostrano come tali discipline sportive si mostrino generalmente più inclusive di quelle individuali verso le donne omosessuali. Osservazione, però, non applicabile ai colleghi maschi, come emergente ad esempio dalle dichiarazioni di Claudio Bellucci, giocatore del Bologna finito nell’occhio del ciclone per il bacio “involontario” a Carlo Nervo del 2002 che scatenò un vespaio di polemiche[14]. Interrogato a distanza di anni, Bellucci ha dichiarato: «Penso che il problema sia proprio lì dentro. Se lo spogliatoio ti accetta, allora è diverso. Ma se non lo fa, è dura per un giocatore omosessuale confessare di esserlo (omosessuale)».
Il secondo dato interessante dello studio di Pistella e Baiocco è il fatto che alcune calciatrici che avevano fatto un coming out “di spogliatoio” non avevano poi fatto altrettanto coi propri genitori: una conferma ulteriore del carattere di safe space rivestito dallo spogliatoio, avvertito comune comunità accogliente di pari e di coetanee, molto più open-minded della coppia genitoriale, inevitabilmente più legata ad immagini tradizionali della sessualità[15].

Continua…

Nella foto in evidenza: Alex Morgan e Abby Wambach con la maglia della Nazionale USA

————————————————————-

[1] A. Tuselli, G. Vingelli (2019), Sport e questioni di genere, in L. Bifulco, M. Tirino (a cura di), Sport e scienze sociali. Fenomeni sportivi tra consumi, media e processi globali (Roma: Rogas), p. 55.
[2] Il rischio è affermare che a differenza di altri sport «nel calcio femminile […] sono più frequenti i coming out delle calciatrici […], ma le reazioni di rifiuto e violenza omofoba sono ugualmente presenti», citando, poi, come esempi del primo fenomeno quanto fatto dalla tedesca Nadine Angerer e dalla britannica Casey Stoney e, invece, in relazione al secondo fenomeno, ricordando la storia della calciatrice sudafricana Eudy Simelane (cfr. A. L. Amodeo, N. D. Casolare, S. Picariello (2017), La percezione dell’omofobia nello sport: uno studio esplorativo, in G. Valerio, M. Claysset, P. Valerio, Terzo tempo, fair play. I valori dello sport per il contrasto all’omofobia, Milano: Mimesis). Solo una considerazione specifica del contesto nazionale può aiutarci a comprendere appieno la complessità del fenomeno a livello globale.
[3] L’ex campionessa del mondo Amy Wambach, ritiratasi dalle scene dopo il Mondiale del 2015, racconta nel suo recente libro autobiografico sia il momento in cui, da ragazza, si è accorta del proprio orientamento sessuale (e di come l’abbia in un primo momento nascosto alla famiglia), sia della propria esperienza come matrigna dei figli che la moglie Glennon Doyle aveva avuto da un precedente matrimonio (A. Wambach (2019), Un branco di lupe (Milano: Mondadori), pp. 32-33, 80-82).
In genere, il «femminismo combattivo di molte calciatrici americane o scandinave» è stato contrapposto a quello assai più tradizionale delle giapponesi campionesse del mondo nel 2011, e ben espresso dal loro nome di battaglia, ossia Yamato Nadeshiko, una specie di garofano rosa «che nella tradizione culturale del paese asiatico simboleggia il modello della donna ideale, fatto di grazia, compostezza e fedele servizio al proprio compagno» (Gasparri, Uva, Campionesse, cit., p. 83).
[4] J. Caudwell (2017), Football and misogyny, in J. Hughson, K. Moore, R. Spaaij, J. Maguire (eds.), Routledge Handbook of Football Studies (London, New York: Routledge), pp. 304-313, pp. 308-309.
[5] Si ricordi che il calcio femminile negli USA ha avuto successo anche perché ha ripreso dalle leghe professionistiche maschili dei 4 grandi sport alcune pratiche di marketing. La selezione per ragioni di marketing non è affatto un fenomeno nuovo: in Australia, per esempio, le aziende che hanno investito nel calcio maschile tendono a nascondere le radici etniche storiche della disciplina, tradizionalmente giocata dagli immigrati italiani e balcanici (G. Kuhn (2019), Soccer vs. the State. Tackling Football and Radical Politics, Oakland: PM Press, p. 40).
[6] C. Ariail (2019), Review of “Kicking Center”, pubblicato il 24/08/2019
[7] Ariail, Review, cit.
[8] S. Scraton, K. Fasting, G. Pfister, A. Bunuel (1999), It’s still a man’s game? The Experiences of Top-Level European Women Footballers, in “International Review for the Sociology of Sport”, 24.2 (1999), pp. 99-111, p. 106
[9] Su questa linea d’onda le dichiarazioni di uno sportivo proveniente dall’altro sport nazionale tradizionalmente ipermaschilista, ossia il rugby, ossia il rugby: «per dirla con l’ex rugbista Stefano Iezzi, che ha sposato un compagno di squadra, “l’omosessuale è associato all’idea di debolezza e delicatezza. Gli uomini hanno paura di fare coming out perché temono che così venga lesa la loro immagine di sportivo e di maschio, cosa che invece non succede se a parlarne sono le donne”» (S. Guerriero (2018),  Omosessualità, dal coming out di Paola Egonu al tabù imperante, pubblicato il 22/11/2018). Molto acutamente, Walther-Ahrens afferma che molte volte si pensa che nel calcio femminile solo le lesbiche possano giocare, come se ci fosse un “gene lesbico” che spinga le donne a giocare a calcio; ciò fa emergere, secondo la tedesca, un grave problema strutturale, perché «”femininity” remains excluded from the game and there is acceptance neither for heterosexual women nor for gay men. These prejudices and stereotypes are deeply entrenched in our society» (Kuhn, Soccer vs. the State, cit., p. 102).
[10] Kuhn, Soccer vs. the State, cit., p. 103
[11] Guerriero, Omosessualità, cit.
[12] B. Bonansea, M. Pastonesi (2019): Il mio calcio libero (Milano: Rizzoli). p. 201.
[13] J. Pistella, R. Baiocco (2017), Atteggiamenti nei confronti di atleti gay, lesbiche e bisessuali che rivelano il proprio orientamento sessuale all’interno dei contesti sportivi, in “La Camera Blu”, 17, p. 70.
[14] Durante la stagione 2001/02, il giocatore del Bologna promise al compagno di squadra Nervo: “se segni contro il Brescia ti do un bacio sul naso”. Quando Carlo Nervo effettivamente segnò (e il Bologna vinse 2-0 al Dall’Ara) «Bellucci onorò la promessa, peccato che calibrò male la mira e lo baciò in bocca» (cfr. Renza, L’omosessualità e il futbol)
[15] Nella testimonianza dell’hockeista Nicole Bonamino lo spogliatoio si contrappone positivamente al gruppo della coetanee ad esso estraneo: «Io ho fatto coming out perché, andando a giocare a Torino, ho conosciuto delle ragazzine che hanno sedici anni e non dicono a nessuno che sono lesbiche, neppure alle loro amiche. Io voglio avere la tranquillità di arrivare in spogliatoio e se sono arrabbiata perché ho litigato con la mia ragazza voglio avere la possibilità di poterlo dire, invece di dovermi inventare qualcosa per paura di essere discriminata, mi sembra assurdo» (C. Falco (2015), Più brave per forza. Storie di donne e sport dal Novecento a oggi, Torino: Edizioni SEB 27).