Le prime Olimpiadi dell’era moderna si aprirono ad Atene il 6 aprile 1896. Dieci giorni di gare, nove discipline, circa trecento partecipanti in rappresentanza di quattordici nazionalità diverse. Tra loro nessuna donna o, meglio, nessuna donna ammessa alle competizioni, visto che gli organizzatori impedirono alla greca Stamata Revithi la partecipazione alla maratona, la gara podistica di 40 km che, ripercorrendo la strada fatta da Fidippide nel 490 a.C. per portare ad Atene la notizia della vittoria contro i Persiani, doveva idealmente consolidare il legame tra i Giochi del 1896 e quelli dell’antica Grecia.
Il giorno dopo la Revithi, arrabbiata per quanto accaduto, ma, allo stesso tempo, desiderosa di mostrare a tutti le proprie capacità, si fece a piedi tutta la strada da Maratona ad Atene, prima di vedersi negato l’accesso allo stadio Panathinaiko. Ci mise cinque ore e mezzo circa, un tempo forse superiore alle sue attese che, ad ogni modo, le sarebbe valso un posto tra i primi dieci nella gara vinta da Spyros Louis.

Ma perché l’avevano esclusa? non era il barone de Coubertin a sostenere che l’importante non è vincere, ma partecipare? Detto che, in realtà, l’uomo che ideò le Olimpiadi moderne pronunciò quella celebre frase solo in occasione dell’apertura dell’edizione londinese del 1908, specificandone la fonte -il vescovo anglicano Talbot- e poi aggiungendo «l’importante nella vita, non è trionfare, ma combattere», quasi a sottolineare quanto, invece, per lui l’agonismo contasse… tralasciato il peso che, inevitabilmente, le autorità del Regno di Grecia ebbero nel caso Revithi (difficile pensare che tra loro vi fossero paladini dei diritti delle donne)… è opportuno chiarire che, nella visione decoubertiana, l’atleta ideale era di sesso maschile e di buona famiglia, doveva osservare scrupolosamente le regole e rispettare i propri avversari, doveva giocare per piacere e non trarre guadagno dalla sua attività sportiva. Insomma, una figura che molto si avvicinava al gentleman dell’età vittoriana.
Da qui quella ipocrita distinzione tra professionisti e amateur che avrebbe attraversato i Giochi fin quasi alla fine del XX secolo e che, già nel 1896 e sempre nella maratona, aveva determinato l’esclusione del milanese Carlo Airoldi. Di estrazione contadina e operaio di professione, l’italiano fu ritenuto reo di aver incassato un premio in denaro alcuni mesi prima a seguito del suo successo alla massacrante Torino-Barcellona, una competizione podistica di 1020 km da compiersi in quindici giorni. E pensare che Airoldi, per raggiungere Atene in tempo, aveva chiesto al giornale La Bicicletta una sorta di sponsorizzazione e aveva percorso a piedi tutta la strada che divideva Milano dalla capitale greca.

In questo nuovo spazio di rappresentazione politica che le Olimpiadi stavano creando (e che da lì a una decina d’anni, in una sorta di prequel della Grande Guerra, sarebbe stato invaso dagli Stati-nazione), la donna doveva avere, sempre secondo De Coubertin, un ruolo puramente accessorio. Concetti quale «la donna può dedicarsi allo sport, purché lo faccia in privato», «una competizione femminile sarebbe antiestetica e di poco interesse» o, ancora, «i Giochi dovrebbero essere riservati ai maschi e il ruolo della donna dovrebbe essere unicamente quello di premiare i vincitori» attraversano discorsi e memorie del barone ben oltre gli anni Venti del secolo scorso, periodo in cui all’interno del programma olimpico cominciarono a essere stabilmente inserite gare femminili, pur tra mille limitazioni.
A proposito, per vedere una donna correre una maratona si sarebbe dovuto attendere il 1967, quando a Boston la statunitense Kathrine Switzer sfidò le restrizioni degli organizzatori e resistette a ogni tentativo dei giudici di bloccarla. Diciassette anni dopo, a Los Angeles, la prima gara olimpica, con un’altra statunitense, Joan Benoit, vincitrice.

federico

Articolo apparso sulla rivista Chiaroscuro, Anno X, n° 52, gen-feb-mar 2019
Su Carlo Airoldi consigliamo questo podcast di Rai Radio 3