Cosa ci vuole per organizzare un Campionato del Mondo che poi venga ufficialmente riconosciuto e ricordato negli annali anche a distanza di un secolo? La risposta è semplice: delle regole più o meno codificate e una federazione internazionale di riferimento.
Questo è il motivo per cui viene ricordata come prima edizione del Mondiale di ciclismo su pista la riunione organizzata a Chicago nel corso dell’Esposizione Universale nei giorni 11-12 agosto del 1893 sotto il patrocinio della International Cycling Association (ICA). Grande protagonista di quella manifestazione fu “lord” Zimmermann, statunitense in grado di vincere in carriera sia su distanze brevi che su distanze lunghe.

Neanche a dirlo, in quel Mondiale non furono assegnati titoli femminili. Anzi, si sarebbe dovuto attendere il 1958 perché l’UCI, l’Union Cycliste Internationale, nata nel 1900 sulle ceneri dell’ICA, inserisse nel programma ufficiale due prove riservate alle donne, la velocità e l’inseguimento individuale. Eppure la fine del XIX secolo vedeva non di rado delle cicliste calcare i velodromi di Parigi, Londra, New York. Alcune di queste atlete ottennero anche una certa notorietà. Prima fra tutte Hélène Dutrieu, la Flèche Humaine, che il 17 agosto 1896 a Ostenda vinse il campionato mondiale femminile. Così, infatti, lo definiva la Gazzetta dello Sport. Si trattava di una gara di velocità, sui 2000 metri, che la ciclista belga percorse in 4’31”. Dutrieu si ripeté l’anno dopo, sempre a Ostenda. Nel 1898 fu, invece, la francese Louise Roger a vincere, come riporta con soddisfazione il settimanale La Vie au Grand Air. Anche un’altra francese, Lisette Marton, era diventata campionessa del mondo, a leggere il New York Journal: a fine 1896 aveva, infatti, vinto una Sei Giorni all’Aquarium di Londra. Ma allora perché queste vittorie non sono riportate nel libro d’oro? Perché si continua a dire che solo a partire dal 1958 si assegnano titoli mondiali alle donne?
Innanzitutto, per una questione burocratica. Le riunioni di Ostenda o la gara londinese non avevano il cappello dell’ICA: erano meeting internazionali che si autoproclamavano “Campionati del Mondo femminili” per il parterre e per farsi pubblicità. D’altra parte, i vertici della federazione non avevano interesse a riconoscere al ciclismo femminile una propria dimensione agonistica: le donne che correvano in bici erano considerate una sorta di spettacolo da baraccone che i velodromi mandavano in scena per attirare pubblico. E chi se ne importava se c’era tanto allenamento e tanta dedizione dietro i risultati di Dutrieu, Roger o Lisette Marton. Così, quando all’inizio del nuovo secolo l’interesse per le “corse delle signore” cominciò a scemare, la neonata UCI ebbe ancor più agio a lasciare da parte le cicliste, per altri cinquanta anni e più.

A proposito, si è dovuto attendere il 2017 e 114 edizioni del Campionato del Mondo di ciclismo su pista perché fossero in egual numero i concorsi riservati alle donne e quelli riservati agli uomini.

Nell’immagine in evidenza: Martina Fidanza, oro nello scratch al Campionato del Mondo di ciclismo su pista del 2021