Personaggi in cerca d’autore. 17° puntata: Amarildo

La fortuna che ha una squadra quando può schierare un fuoriclasse, spesso coincide con la sfortuna di un pari ruolo che sa già che non avrà mai una chance di giocare titolare. Ma se alcuni club possono permettersi di acquistare dei gregari da poter tranquillamente escludere dall’undici di partenza, nelle squadre nazionali sono molti i casi in cui determinati giocatori, pur talentuosi, sono inevitabilmente oscurati per manifesta superiorità di un suo compagno. Se poi la squadra in questione si chiama Brasile e, soprattutto, se il fuoriclasse si chiama Pelé, beh, chiunque si sarebbe rassegnato a far prendere alla panchina la forma delle proprie natiche. Tutto questo per introdurre la figura di Amarildo Tavares de Oliveira, meglio conosciuto semplicemente come Amarildo (in quanto figlio di Amaro, anch’egli nazionale carioca), colui che ha avuto l’onore e l’onere di fare le veci di Pelè. Amarildo non è, però, solo il vice “O Rei” «di faccia, di profilo e di tre quarti» (come magari l’avrebbe chiamato De Roberto), è un personaggio interessante, a volte scomodo, il cui genio e la cui sregolatezza hanno calcato, tra alti e bassi, anche i campi italiani.

amarildo1Siamo a Viña del Mar, Cile, a pochi chilometri da Valparaíso, durante la Coppa Rimet del 1962. Il 2 giugno il Brasile, campione in carica, scende in campo contro la Cecoslovacchia nella seconda partita del gruppo 3. Pelé, mattatore di Svezia ‘58 e già andato in rete alla prima gara vinta 2-0 contro il Messico, si fa male calciando una punizione. A caldo “O Rei” non sente dolore e anzi, va a sincerarsi delle condizioni di Popluhar, il difensore cecoslovacco colpito dal pallone. Tuttavia, si accorge pian piano di dover uscire dal campo: inizialmente si ipotizza uno stiramento, ma in realtà è uno strappo che significa Mondiale finito. Amarildo si rende conto del fatto che quella panchina prenderà la forma delle natiche di qualcun altro: «quando l’ho visto camminare a malapena, ho iniziato a pensare a come poteva essere sostituirlo». Il vice-Pelé. allora ventitreenne, ha esordito un anno prima in nazionale[1] e milita nel Botafogo insieme a Didi, Garrincha e Zagallo: in pratica, a parte Vavá, si trovava a interpretare il terminale d’attacco della nazionale insieme ai suoi compagni di club. Il ct Aymoré Moreira, per motivare il numero 20 a cui sono state improvvisamente affidate le sorti della squadra, punta saggiamente proprio su questa intesa. Del resto, a detta dello stesso Amarildo, «con Moreira non c’era nessun dubbio su chi fosse il sostituto di chi. Ogni titolare aveva il suo vice, e io ero quello di Pelé».

Ma la terza partita, quella per approdare ai quarti, è contro la scomoda Spagna del naturalizzato Puskás e di Gento, e si mette subito male per i brasiliani: gli iberici al 35’ passano in vantaggio grazie a una rete di Abelardo, e con questo risultato alla Cecoslovacchia basterebbe un pareggio contro il Messico per passare il turno ed eliminare i campioni del mondo in carica. A venti minuti dalla fine però si sveglia Amarildo, che si scrolla di dosso la tensione e non solo segna il gol del pareggio al 72’, ma si ripete all’86’ siglando la rete della vittoria. «Dopo la partita stavo facendo la doccia quando Pelé, euforico, è entrato nello spogliatoio ed è venuto ad abbracciarmi, completamente vestito. Era come se fosse appena uscito dal campo anche lui». La stampa brasiliana non esita a soprannominare Amarildo “O novo Rei”, Nelson Rodrigues lo chiama addirittura “O possesso”, il posseduto, ma nei quarti e in semifinale i protagonisti sono Garrincha e Vavá, che liquidano l’Inghilterra e il Cile mettendo a segno, in due partite, tre gol il primo e quattro il secondo.

Si arriva così alla finale, che a Santiago il 17 giugno 1962 vede i campioni in carica di nuovo contro la Cecoslovacchia, dopo lo 0-0 dei gironi che ha sancito la fine del Mondiale per Pelé e l’occasione di ribalta per Amarildo. Sliding doors sarebbe uscito 36 anni dopo, ma insomma ci siamo capiti. Al 14’ Masopust trafigge Gilmar, ma il Brasile non si dà per vinto e trova il pareggio tre minuti dopo quando Amarildo, proprio lui, se ne va sulla sinistra e sorprende il portiere Schrojf – impeccabile fino a quel momento – sul proprio palo. I due gol successivi, per il definitivo 3-1, li segnano Zito e il solito Vavá, permettendo al Brasile di alzare la Coppa Rimet per la seconda volta consecutiva. Intanto, gli interessi del calciomercato italiano si concentreranno sul primo marcatore, il giovane vice-Pelé.

La Fiorentina aveva dimostrato il proprio interesse per Amarildo già nell’estate del 1961, ma non aveva sborsato gli 80 milioni necessari per acquisirne il cartellino. Ora, però, parliamo di un attaccante brasiliano il cui nome è nel tabellino di una finale mondiale e, come se non bastasse, la stampa italiana ha ben deciso di ricamare sulla rivalità tra “O Rei” e il suo vice. Il Botafogo, fiutando l’affare, decide di alzare il prezzo di Amarildo a 300 milioni provocando una folle asta tra Fiorentina e Juventus, fermata solo dalla Federcalcio che decide di vietarne il tesseramento per quella sessione di calciomercato. Una decisione senza precedenti, dopo cui il giovane Umberto Agnelli rassegna addirittura le sue dimissioni dai vertici della Juventus.

Passa un altro anno, siamo nell’estate del 1963 e il Botafogo è in tournée in Europa. La suddetta rivalità tra il fuoriclasse e il suo vice in Italia era diventata “odio fraterno” e su Calcio e ciclismo illustrato erano stati scomodati Caino e Abele, dato che nell’amichevole tra Italia e Brasile, Amarildo si era rifiutato di entrare a partita in corso in quanto non schierato titolare, nonostante Pelé non fosse in perfette condizioni fisiche. Sì, parliamo della partita in cui Trapattoni avrebbe annullato Pelé, quella lì.
Il Milan campione d’Europa, in tutto ciò, decide di farsi sotto, complice anche l’astensione delle squadre precedentemente interessate, e riesce ad acquistare Amarildo. Ironia della sorte, il neoacquisto rossonero si trova quasi subito a giocare contro il suo “rivale” in Coppa Intercontinentale, e segna anche due reti nella partita di andata vinta 4-2 dalla squadra italiana, prima di perdere sia il ritorno (sempre per 4-2) che lo spareggio, finito 1-0 per il Santos grazie all’infausto arbitro Brozzi e a un gol, indovinate di chi?
Nella sua prima stagione a Milano Amarildo gioca ala sinistra, al fianco di un centravanti che poi è un’altra vittima dell’inevitabile assolutismo di “O Rei” in nazionale carioca, cioè José Altafini. I due si intendono alla perfezione e segnano la bellezza di 14 reti ciascuno, ma i rossoneri arrivano terzi dietro al Bologna campione e all’Inter. Nella stagione 1964/65 Altafini dà in escandescenza, litiga con tutti e se ne va al Napoli. Anche il rendimento di Amarildo ne risente, tanto che segnerà solo quattro gol in due anni. Il suo nome nei tabellini delle partite, in quel periodo nero, sarà più che altro accostato ai cartellini rossi. La rudezza dei difensori della serie A non va molto d’accordo con la tecnica (a volte leziosa) brasiliana, soprattutto se quei piedi sono accompagnati da un carattere fumantino come quello di Amarildo, che più volte lascia il campo a causa di falli di reazione.

Amarildo- fiorentinaIl vice-Pelé col Milan riesce a vincere solo una Coppa Italia, il suo calo è evidente e la sua avventura in Italia sembra volgere al termine. Ma il neo-allenatore della Fiorentina Bruno Pesaola lo vuole fortissimamente per il progetto che ha in mente, un mix equilibrato tra giovani promesse e calciatori navigati. I tifosi viola non saltano di gioia, consci del suo carattere irrequieto, e Amarildo giusto per non smentirsi continua a collezionare espulsioni anche nel capoluogo toscano. Nel gennaio del 1968, alla sua prima stagione a Firenze, Amarildo subisce un fallo letale a Ferrara contro la Spal, rompendosi la tibia e distorcendosi una caviglia. Poco dopo il suo rientro, in aprile contro l’Atalanta, arriva dal Brasile una telefonata che gela la dirigenza viola: Amarildo chiederebbe il raddoppio dell’ingaggio. Vige il panico, ma interviene Pesaola che non solo convince il giocatore a tornare sui suoi passi, ma ha anche l’intuizione giusta: arretrarlo a regista per sfruttare la sua tecnica sopraffina (ecco da chi, forse, ha preso spunto Ancelotti per Pirlo e Modrić). Amarildo non cade più nelle provocazioni, scopre la gioia degli assist e incanta il pubblico fiorentino mentre innesca Maraschi – protagonista di una stagione memorabile – e, soprattutto, regala ai viola il secondo scudetto. L’anno dopo Amarildo gioca bene, ma niente a che vedere con la stagione precedente, così a 31 anni approda alla Roma di Helenio Herrera nell’ambito di una sessione di mercato disastrosa per la Fiorentina. Le prestazioni in giallorosso saranno senza infamia e senza lode (come del resto la Roma di quelle due stagioni), e saranno queste a concludere la sua avventura italiana da giocatore, durante la quale colleziona 202 presenze, 58 gol e il ragguardevole bottino di dieci espulsioni. La carriera di Amarildo finirà al Vasco da Gama, nel suo natìo Brasile, con sole sette presenze in due anni.

Appesi gli scarpini al chiodo, l’ex vice-Pelé decide di diventare allenatore, e dopo le prime esperienze nelle giovanili di Botafogo e Fiorentina inizia un peregrinaggio tra Sardegna, Tunisia e Toscana [2], che lo riporterà in viola nel 1990 come secondo di Lazaroni, ex ct del Brasile fresco reduce del fallimentare mondiale italiano. Viene cacciato dopo poco, a detta sua, per non aver voluto mettere in campo tale Bartolelli, figlio di un intimo amico di Cecchi Gori.
Meglio quindi ricordarlo da calciatore, e concludere col sua acuta risposta al classico quesito, in questo caso particolarmente malizioso: chi è stato il più grande tra Maradona e Pelé? Amarildo ha replicato «Garrincha, senza dubbio».

daniele

Puntata precedente: Gordon Banks; Puntata successiva: Joe Gaetjens
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[1] Entrò in un’amichevole contro il Paraguay al posto di Quarentinha, ma Pelé non c’era in quanto impegnato nel servizio militare.
[2] Inizia al Sorso, squadra di interregionale della provincia di Sassari. Rimane in Sardegna due anni per poi trasferirsi a Tunisi, sponda Espérance, vincendo un campionato e una coppa tunisina, trofei che saranno il picco della sua carriera da allenatore. Nel 1987 torna a Firenze, in serie C2 con la Rondinella, per poi guidare la Turris per due stagioni e trovarsi al Pontedera dopo aver fatto da secondo a Lazaroni.