La chiave di tutto è l’indennizzo: nel 1990 un giocatore a contratto scaduto poteva, infatti, accordarsi personalmente con una nuova società, ma il trasferimento si perfezionava solo se quest’ultima pagava una congrua somma al club in cui il giocatore aveva militato in precedenza. E il problema pratico era quanto congrua dovesse essere questa somma. Le tabelle dicevano che un giovane aveva più anni di carriera davanti a sé rispetto a una vecchia gloria e, quindi, per lui si potevano chiedere più soldi, ma di certo non giustificavano le pretese del Liegi RFC in merito alla cessione di Jean Marc Bosman.
Non la giustificavano perché il Bosman famoso era un altro[1], perché Jean Marc aveva già venticinque anni e non era più una promessa del calcio belga dai tempi in cui vestiva la maglia della Under 21 e soprattutto perché dietro la richiesta di un indennizzo esoso si nascondeva una manovra di mobbing in piena regola: Bosman militava nel Liegi RFC, Prima Divisione belga, e si era, infatti, rifiutato di firmare un rinnovo contrattuale a un compenso più basso; aveva perciò preso contatti con il Dunkerque, compagine di Seconda Divisione francese, e allora il Liegi RFC aveva sparato una cifra altissima, l’equivalente di un miliardo e 280 milioni di lire o di mezzo milione di sterline del tempo, pur sapendo che il Dunkerque difficilmente se la sarebbe accollata. Così, alla fine Jean Marc era rimasto alla compagine belga, fuori squadra, al minimo dello stipendio,. Non si era, però, rassegnato e aveva deciso di adire alle vie legali.

15 dicembre 1995. Sono passati cinque anni e in un solo giorno il Bosman destinato a rimanere negli annali diventa lui, Jean Marc. Al termine di una lunga battaglia legale, condotta anche grazie ai contributi in denaro versati da «colleghi francesi, spagnoli, danesi e portoghesi» e sostenuta dalla FIFPro, Fédération Internationale des Associations de Footballeurs Professionnels, come spiega il Corriere dello Sport, la Corte di Giustizia Europea ha dato ragione a lui: il Liegi RFC non aveva diritto a bloccare il suo trasferimento al Dunkerque, in base alle norme che regolano la libera circolazione dei lavoratori -e un calciatore professionista lo è- all’interno dei paesi dell’Unione Europea. Come dire, se Bosman nel 1990 si fosse accordato con una squadra belga e non con una francese, difficilmente la UE sarebbe potuta intervenire e il tutto non avrebbe potuto prendere una piega che, in fondo, a molte società va comunque bene.
Già, perché a margine della definitiva sopressione dell’indennizzo, cosa che spingerà in futuro i club a fare contratti più lunghi con i big e a inserire le clausole di rescissione, i giudici specificano che è illegale qualsiasi restrizione al numero di calciatori provenienti da paesi dell’Unione Europea che si possono schierare in campo. E la vera rivoluzione Bosman è qua.

Sono passati più di venti anni da quel giorno del 1995. Che la cosiddetta sentenza Bosman abbia favorito le multinazionali del pallone è un dato di fatto. Non possiamo, però, fare finta di credere che, in assenza di Jean Marc, sarebbe passato molto tempo prima di superare il binarismo autoctoni-stranieri, visto che già da qualche anno l’idea di una Champions League estesa e garantita, o quasi, per le grandi squadre era in discussione. Non a caso, proprio nel corso della stagione 1995/96 fu fatto il primo passo, con la possibilità di accedere ai gironi, a partire dal 1997, data alla squadra seconda nei campionati europei più importanti.
Più interessante è, invece, osservare come, a seguito della sentenza Bosman, si sia di fatto generata una terza categoria, quella dei comunitari: non soggetti a limitazioni, quanto al loro tesseramento, ma inutilizzabili per la Nazionale del Paese in cui giocano, gli appartenenti a questa categoria sono assimilati in toto agli stranieri di una volta da chi, ad esempio, ciclicamente dà fiato alla retorica della poca presenza di italiani in campo e tace sul fatto che anche i nostri hanno la possibilità di andare a fare i titolari in Premier o in Liga. La discrepanza tra Europa geografica e Unione Europea alimenta poi la confusione che fa del comunitario un soggetto sfumato. E, visto che il mondo del pallone non è andato oltre la sentenza Bosman e non tutte le federazioni europee hanno liberalizzato il numero di calciatori extra UE tesserabili (anche per questioni complesse, tipo traffico di baby calciatori che si potrebbe generare), la differenza tra come in Gran Bretagna, Spagna o Italia si ottiene il diritto di cittadinanza, fa del comunitario anche un soggetto sfumabile.
L’affaire Suarez, in primis, dice proprio questo. Innanzitutto, dieci anni e più di militanza in squadre come Ajax. Liverpool e Barcellona non hanno reso l’uruguagio comunitario per motivi di lavoro; in secondo luogo, il Barcellona ha potuto senza troppe ambasce, grazie alla legge spagnola, considerarlo assimilabile a un comunitario[2]; in terzo luogo, la Juventus, quando si è accorta che Suarez era “italiano” per la legge spagnola, ma extracomunitario per quella italiana, ha forzato la mano, chiesto e ottenuto in poco tempo la possibilità che l’attaccante ormai ex blaugrana diventasse italiano in Italia permettendogli di sostenere a metà settembre 2020 quel famigerato esame B1 di italiano all’Università per Stranieri di Perugia.

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[1] Ci riferiamo a Johnny Bosman, attaccante olandese prima dell’Ajax e poi del Malines. Vincitore di una Coppa delle Coppe nel 1987 e campione d’Europa con l’Olanda nel 1988, partì titolare nelle prima partita di quell’Europeo e poi dovette fare spazio a Van Basten. Non fu invece convocato per Italia ’90
[2] Suarez è sposato dal 2009 con Sofia Balbi, uruguaiana con il passaporto italiano per le origini friulane. La legge spagnola riconosce gli stessi diritti dei comunitari a chi è familiare di un cittadino comunitario, in particolare a chi è legato da vincolo matrimoniale. Cfr. qui.