La Coppa d’oro dei Campioni del Mondo, meglio nota come Mundialito, è chiamata da molti “il torneo dimenticato”. Disputata una sola volta, in Uruguay a cavallo tra 1980 e 1981, è interessante non di certo per quello che è accaduto nello Stadio del Centenario di Montevideo, ma per tutto quello che c’è stato dietro, da loschi imprenditori operanti in uno stato oppresso da una dittatura militare a una disputa sui diritti televisivi europei che ha enormemente e inaspettatamente condizionato il futuro dell’Italia.

Aparicio Méndez insieme a Jimmy Carter

Aparicio Méndez insieme a Jimmy Carter

Anche l’Uruguay. La dittatura di Videla che fece da sfondo al maledetto mondiale argentino del 1978 non era di certo l’unica in quegli anni in America Latina. Anche a causa dell’Operazione Condor – portata avanti più o meno segretamente dagli Stati Uniti – negli anni ‘70 in questa parte del continente si verificarono colpi di stato militari in varie nazioni, finanziati e/o caldeggiati da Washington allo scopo di arginare il socialismo. Non fece eccezione l’Uruguay, in cui il 27 giugno del 1973 Juan María Bordaberry, già presidente, guidò un golpe per sciogliere il parlamento e reprimere le proteste dei dissidenti politici di sinistra, i cui partiti divennero fuorilegge. Bordaberry fu destituito tre anni dopo con un altro colpo di stato che mandò al potere Aparicio Méndez, rimasto in carica fino al settembre del 1981. Stranamente desideroso di legittimazione popolare, Méndez indisse per il 30 novembre 1980 un referendum che avrebbe dovuto rappresentare una plebiscitaria ciliegina sulla torta del governo golpista. Così non fu, poiché alle urne il 57% degli uruguagi si schierò contro la dittatura militare.

Intanto Washington Cataldi, allora presidente del Peñarol, e Angelo Vulgaris, commerciante di bestiame di origine greca, stavano organizzando il Mundialito col pretesto di celebrare il cinquantesimo anniversario della prima Coppa Rimet, vinta proprio dalla Celeste a Montevideo. Nemmeno in questo caso la FIFA e il suo presidente João Havelange si fecero scrupoli nel supportare una manifestazione calcistica disputata mentre poco lontano dagli stadi migliaia di persone venivano torturate e uccise (nello specifico dell’Uruguay si parla di settemila prigionieri politici in una nazione con meno di tre milioni di abitanti). A Montevideo, però, girava voce che dietro l’organizzazione del torneo ci fosse anche Licio Gelli che lì aveva vari possedimenti e interessi, oltre a essere un importante azionista del Banco Finanziario Sudamericano: come vedremo parlando dell’assegnazione dei diritti televisivi, la P2 ricorre un po’ troppo perché il suo coinvolgimento nel Mundialito sia solo una congettura.

In ogni caso, visto l’esito del referendum di cui sopra, la giunta militare uruguagia -inizialmente non molto interessata all’evento- decise di sfruttare il Mundialito a fini propagandistici: questa manifestazione divenne così un’occasione per rilanciare l’immagine dell’Uruguay e provare a farlo uscire dall’isolamento politico, esattamente come fece il regime argentino due anni prima in occasione del mondiale.

Le squadre partecipanti. Al Mundialito furono invitate tutte le squadre che a quella data avevano vinto almeno un’edizione della Coppa Rimet, cioè Argentina, Brasile, Germania Ovest, Italia, Inghilterra e naturalmente Uruguay. Gli inglesi però rifiutarono la partecipazione, ufficialmente per incompatibilità con il campionato nazionale -fitto di partite durante il periodo natalizio- ma secondo qualcuno per protesta contro la junta di Montevideo. Al loro posto fu chiamata l’Olanda, nonostante i suoi media abbiano dato  risalto più all’aspetto politico della manifestazione (come nel caso di Argentina ’78), e nonostante il ministro degli Esteri abbia ufficialmente invitato la Federcalcio oranje a riconsiderare la partecipazione. Stranamente anche in Italia ci fu qualche timida protesta: 41 tra calciatori e allenatori [1] firmarono un documento in cui si chiedeva che il Mundialito fosse “anche una tribuna dove si condanni la politica di repressione e fame portata avanti in questi ultimi sette anni”. Ciò però non impedì la partecipazione degli azzurri, fortemente voluta dall’allora presidente della FIGC Artemio Franchi. Anche perché a differenza dei media olandesi, ad esempio il Corriere della Sera suggerì di recarsi a Montevideo all’insegna di “football, shopping e un’abbronzatura fuori stagione per il tifoso-turista”, esaltando anche la gastronomia locale, senza però nemmeno nominare la dittatura militare.

Le sei nazionali andarono a comporre due gironi da tre, e fin dal sorteggio si capì che doveva vincere la squadra di casa. L’Uruguay infatti trovò nel suo raggruppamento Olanda e Italia, sulla carta le più deboli: la prima perché la generazione del calcio totale era sul viale del tramonto, la seconda perché senza Dino Zoff e Paolo Rossi (anche se con tanti calciatori che poi due anni dopo alzarono la Coppa del Mondo). I padroni di casa vinsero agilmente sia la prima partita contro l’Olanda sia quella contro gli azzurri (quest’ultima anche grazie al discutibile arbitraggio dello spagnolo Emilio Guruceta Muro), entrambe per 2-0. Nell’altro girone la spuntò il Brasile, pur eliminando l’Argentina di Maradona solo grazie alla differenza reti. Il 10 gennaio 1981 si giocò quindi la finale e accadde quello che ci si aspettava: l’Uruguay sconfisse i verdeoro come nel 1950, 2-1 con gol decisivo di Victorino (capocannoniere del torneo con 3 reti, determinante anche qualche mese dopo nella prima Toyota Cup, poi però approdato al Cagliari senza lasciare il segno). La nazionale di Bearzot fu quindi subito eliminata dal Mundialito, inconsapevole del fatto che la partita più difficile per le sorti dell’Italia si era giocata per far vedere il torneo in televisione.

L’acquisizione dei diritti televisivi. Ormai l’aspetto portante del Mundialito era divenuta la propaganda, perciò trasmetterlo in Europa divenne fondamentale. La federcalcio uruguagia aveva affidato la proprietà dei diritti televisivi alla Strasad, con sede a Panama, ufficialmente rappresentata da Vulgaris. La prassi nel vecchio continente voleva che l’Eurovisione [2] acquisisse direttamente i diritti televisivi degli eventi sportivi internazionali e poi li girasse alle varie emittenti nazionali. La Strasad offrì all’Eurovisione il Mundialito per un milione e mezzo di dollari, cifra altissima per l’epoca. La controfferta, concordata con le televisioni nazionali europee, fu della metà -settecentocinquantamila- e la trattativa saltò. A questo punto si inserì Berlusconi (come è noto membro della P2) offrendone novecentomila e la società Rete Italia, costola della Fininvest, il 20 novembre 1980 ottenne così i diritti del Mundialito per l’Italia e per gran parte dei paesi europei [3]. Quello che saltò subito all’occhio, oltre all’apparentemente assurda onerosità dell’operazione, fu la praticabilità della cosa, visto che di fatto l’emittente berlusconiana, per legge, non poteva trasmettere né in diretta né sull’intero territorio nazionale (anche se Telemilano-Canale 5 era già illegalmente organizzata come un network formato da varie tv locali dislocate in tutta Italia ma coordinate da Milano). Vulgaris, intervistato da Il Giornale (all’epoca controllato da Roberto Calvi e diretto da Franco Di Bella, entrambi piduisti), dichiarò che la Rai non si era mai fatta avanti e che le trattative con Eurovisione erano fallite, quindi non restava che cedere i diritti al miglior offerente, sottolineando che “gli sportivi italiani potranno assistere al Mundialito solo grazie a Rete Italia”. La Rai smentì questa versione dei fatti, dichiarando che quando l’Eurovisione si era fatta avanti i diritti erano in realtà già stati ceduti a Berlusconi e che pertanto non c’era mai stata una regolare asta.

corriacasaLa situazione era in stallo: l’Eurovisione impediva alle emittenti nazionali di trattare separatamente, e Berlusconi per poter trasmettere le partite comprate aveva bisogno del satellite gestito da Telespazio, fino a quel momento a uso esclusivo della Rai [4]. La trattativa entrò appunto nel vivo quando Canale 5 chiese ufficialmente alla tv di stato di poter disporre del satellite per poter mostrare il Mundialito: il ministro delle Poste -il socialdemocratico Michele De Gelsi- rifiutò categoricamente, ma Berlusconi ostentava comunque estrema sicurezza, dichiarando il 4 dicembre alla Gazzetta dello Sport (edita da Rizzoli, anch’essa controllata dalla P2) di essere sicuro che il ministro alla fine avrebbe ceduto. E infatti, come previsto, complice anche la pressione mediatica messa in atto dai giornali vicini al futuro presidente del consiglio e alla loggia di cui faceva parte (compresi l’Avanti!, organo del Psi di Craxi e  Tv sorrisi e canzoni), il ministro De Gelsi il 20 dicembre ritrattò completamente, divenendo all’improvviso disponibile a far usare il satellite a Canale 5 e impegnandosi personalmente per cercare un accordo tra le parti; è degno di nota il fatto che il segretario e il vicesegretario del Psdi, il partito di De Gelsi, erano anch’essi affiliati alla loggia comandata da Gelli.

L’accordo poi si fece, e Berlusconi riuscì a disfarsi dei diritti soffiati all’Eurovisione riuscendo non solo a venderli alla Rai -a prezzo ovviamente maggiorato-, ma anche a trasmettere su Canale 5 alcune partite in diretta (anche se non quelle degli azzurri e non la finale), rispettando gli accordi già stretti con gli inserzionisti pubblicitari. Ciò pose fine al monopolio della Rai e soprattutto rappresentò un tassello fondamentale per la creazione dell’impero mediatico che ha permesso a Berlusconi di diventare presidente del consiglio, con tutto ciò che ne è conseguito e ne sta conseguendo.

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[1] Alla fine però furono rese note solo due partecipazioni, quella di Ilario Castagner, allora allenatore della Lazio, e del difensore della Roma Sergio Santarini.

[2] L’Eurovisione regola tutti gli scambi di emissioni radiofoniche e televisive del continente. Ne fanno parte tutte le emittenti pubbliche nazionali europee. Ricorderemo tutti con piacere la sigla, il celeberrimo preludio del Te Deum di Charpentier.

[3] Ottenne i diritti anche per Germania, Austria, Olanda, Svizzera, Danimarca, Norvegia e Svezia.

[4] Unica eccezione fu fatta per Telepace, nata nel 1979, che ottenne il permesso di trasmettere l’angelus di Giovanni Paolo II in America Latina.