Pian piano diventerà Serie A. 22° puntata

Il Genoa è il club più antico e quello più blasonato tra quelli in attività. Non può, quindi, accontentarsi di secondi e terzi posti e, soprattutto, non può più sopportare lo strapotere della Pro Vercelli. Da quando poi soffiano venti di guerra, da quando il nazionalismo è entrato di prepotenza in tutti i discorsi, la sfida tra una società fatta di soli giocatori vercellesi e un club di vocazione internazionale fondato da inglesi è qualcosa che necessariamente trascende il campo da gioco (e quanto accaduto dopo l’ultimo match di campionato lo dimostra).[1]

Intanto, per cercare di colmare il gap con i bianchi della Pro, la dirigenza genoana durante l’estate 1912 ha affidato la guida della squadra a un unico commissario tecnico, William Garbutt, ex ala destra del Blackburn da poco ritiratosi per un terribile infortunio occorsogli sul terreno di gioco, e ha già messo mani al portafoglio, come si direbbe oggi. In realtà il calciomercato è di là da venire e per potersi avvalere delle capacità di alcuni player inglesi si è dovuti ricorrere a un impiego: così Percy Walsingham è stato assunto dalla società carbonifera Maresca, l’ex Arsenal John Grant dalla ditta Malfettani, che opera nello stesso settore, e James Mitchell dall’agenzia marittima Coe & Clerici. La manovra puzza un po’ di quello che oltremanica era stato chiamato shamateurism e che in Argentina avrebbero definito amateurismo marrón, ovvero una sorta di professionismo coperto da lavori di facciata, ma la FIGC non può obiettare nulla. I nuovi rossoblù d’Inghilterra hanno, infatti, regolare contratto di lavoro e residenza nella città della squadra cui offrono i loro servigi.

Renzo De Vecchi in maglia Genoa

Visto che è andato tutto liscio -tranne il fatto che la Pro Vercelli ha vinto ancora-, non appena il Girone Finale dell’Italia Settentrionale 1912/13 va in archivio, si replica. Questa volta con grossi nomi del football nostrano e cittadino, forse anche per rendere la squadra più italiana e, quindi, meno soggetta ad attacchi da parte dei nazionalisti.
Ecco così che improvvisamente Renzo De Vecchi, giovane mediano del Milan e della Nazionale, viene trasferito dalla banca in cui lavora a Milano nella filiale di Genova.[2] Arriva anche un aumento di stipendio e forse un ingaggio, mai appurato, una manovra che si dice abbia complessivamente fruttato 24000 lire al giocatore. A sfogliare La Stampa dell’epoca si scopre che un quotidiano costa 5 centesimi, un pranzo al Ristorante Hotel Zecca 3 lire, vino compreso, e rifarsi completamente il bagno ne costa invece 300. La cifra è, quindi, elevatissima.
Anche un altro dei pochi nazionali non vercellesi, Attilio Fresia, viene prelevato dai cugini dell’Andrea Doria e arriva alla corte di Garbutt, ma qualcosa stavolta va storto: le 400 lire che il giocatore ha ricevuto non sono giustificabili da impieghi di sorta e l’attaccante, accusato di professionismo e squalificato per due anni dal Consiglio Federale il 9 giugno 1913, prende la via di Reading, sfruttando la buona impressione lasciata nel match sostenuto dal Genoa contro gli inglesi un mese prima.

Il Genoa se la cava con una multa di 1000 lire per «recidiva»,[3] anche se questo suo modo di operare molto all’inglese ha attirato le attenzioni degli avversari e alla puntata successiva scoppia un vero e proprio scandalo.
Mentre in Federcalcio si sta decidendo come punire Fresia, gli ex doriani Enrico Sardi e Aristodemo Santamaria, appena passati al Genoa, vengono esclusi all’ultima ora dalla formazione italiana che si sta per recare a Vienna a giocare contro l’Austria. La Gazzetta spera che il tutto sia dovuto «unicamente all’impossibilità dei due giuocatori di abbandonare le loro abituali occupazioni», ma dopo pochi giorni il timore che i rossoblù siano stati pizzicati ancora diventa certezza.
Il retroscena che ha innescato il caso «è ben noto, in quanto riveste contorni quasi da commedia», come scrive genoadomani.it che ha ricostruito il caso in modo dettagliatissimo.
Per convincerli a cambiare casacca, i due dell’Andrea Doria hanno ricevuto un assegno da 1500 lire ciascuno su beneplacito del presidente dei rossoblù Geo Davidson. Meno di De Vecchi, ma rifarsi un paio di volte il bagno in casa ci scappa.
Sardi e Santamaria hanno avuto, però, la sfortuna di trovare, presso l’istituto bancario in cui si sono recati per incassare i loro assegni, un cassiere tifoso doriano che non solo li ha riconosciuti, ma ha anche capito al volo cosa stava succedendo.
Accampando motivi procedurali, l’impiegato ha rinviato al giorno successivo il pagamento e, in realtà, è corso ad informare la dirigenza doriana, che ha immediatamente denunciato il tutto alla FIGC.

Così, il 13 luglio 1913, a distanza di un mesetto dall’accaduto, a Vercelli, nel corso della seduta del Consiglio Federale, va in scena un vero e proprio processo nei confronti del Genoa e del «sottil morbo» del professionismo, come lo definisce la Gazzetta. A rischio è addirittura l’iscrizione dei grifoni alla Prima Categoria.
I rossoblù, che nei giorni precedenti il processo hanno fatto sapere di possedere documenti in grado di smontare le accuse loro rivolte, cambiano improvvisamente e inaspettatamente strategia, vista anche la spada di Damocle della recidività che pende su di loro. A parlare non si presenta il presidente in carica, l’inglese Davidson, ma l’ex presidente Edoardo Pasteur, che insieme al fratello Enrico rappresenta da sempre l’anima italiana della società ligure.
È un discorso tipo cuore in mano che scuote la platea perché da un lato non nasconde la colpevolezza di alcuni «isolati» che pensavano di agire a vantaggio del Genoa, ma «che nulla hanno in comune col Consiglio direttivo del Genoa»; dall’altro ricorda come i rossoblù si siano da sempre distinti per «il culto della correttezza sportiva», mirando a un primato «che vuol essere sopra tutto d’ordine morale». E, coup de théâtre finale, la perorazione si conclude con un «altri hanno mancato, punitemi pure se in coscienza mi trovate e mi giudicate colpevole».

Le parole di Pasteur vanno a segno e in pratica disinnescano il desiderio di rivalsa dell’Andrea Doria, che per bocca del suo presidente Oberti si dice convinta che la società Genoa non sia direttamente responsabile della faccenda. Il presidente della Pro Vercelli Bozino invita poi a comportarsi con mitezza e così l’assemblea a larghissima maggioranza approva una mozione che invita «a proseguire vigorosamente nell’opera di epurazione intrapresa per scardinare il professionismo ovunque imperi», prevede per il Genoa solo una nuova multa e squalifica per due anni Sardi e Santamaria.
I due ex doriani, a dire il vero, sconteranno solo un anno di squalifica e faranno parte del Genoa campione d’Italia nel 1915. Volendo essere pignoli, poi, il “sottil morbo” del professionismo non scomparirà affatto: altri casi, con conseguenze ancor più forti sull’andamento del campionato, scoppieranno prima che la Carta di Viareggio arrivi a modificare profondamente anche questo aspetto del calcio italiano.

federico

Nella foto: Particolare del Genoa vittorioso contro il Liguria il 6 dicembre 1914. Sardi è il terzo seduto da sinistra, Santamaria è il quarto.

Puntata precedente: La prima non retrocessione della Juventus; Puntata successiva: 1914, il titolo rimane in provincia

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[1] Ricordiamo che nel 1913 gli alleati sono ancora gli austriaci e la Gran Bretagna rappresenta ancora il nemico
[2] cfr. 1001 storie e curiosità sul grande Genoa che dovresti conoscere di Fabrizio Càlzia
[3] Il virgolettato si riferisce a quanto riporta la Gazzetta dello Sport dell’11 giugno. Probabile che con la recidiva ci si riferisca al caso Swift, giocatore preso a gettone da Torino e Genoa in occasione di alcune partite di campionato