Galeotto fu l’album dei calciatori, come per tanti altri. Avevano appena riaperto le frontiere e cercare l’unico straniero di ogni squadra era divertente. Anche gli italiani dai cognomi strani avevano il loro fascino, tipo il cacofonico Astutillo Malgioglio o il finto russo Vierchowod, ma ciò che attirava maggiormente la mia attenzione era il calendario delle partite con i risultati delle prime giornate già inseriti. Volevo riempire quegli spazi.
Per le giornate già disputate chiesi aiuto alla memoria di mio padre, che, tra la sua Fiorentina che stava ritornando grande e la schedina da controllare, seguiva con discreta attenzione la Serie A. Per quelle ancora da giocare capii che, se mi affezionavo a una squadra, avrei avuto ben altro pathos nel conoscere i risultati e che, se ne sceglievo una vincente, sarebbe stato meglio. Così interpellai di nuovo mio padre e gli chiesi quale squadra aveva vinto più campionati. Era l’inverno dell’annata calcistica 1980/81, ma di passione vera per il pallone non si poteva certo ancora parlare.

E sì, perché da quando nel 1978 avevo visto in TV correre Gilles Villeneuve, nel mio cuore non c’era posto per nessun altro sportivo. Chi prende a calci un pallone in strada grida il nome dei giocatori più famosi. Io, bimbo da appartamento, simulavo gare piene di incidenti con le mie macchinine (malefico influsso dei cugini più grandi) e il canadese rappresentava la personificazione di quel mondo.
L’aviatore, come lo chiamava Enzo Ferrari, aveva tutte le caratteristiche per essere l’idolo dei tifosi e non solo mio: era veloce, simpatico, non si arrendeva mai, faceva molti errori, ma riusciva anche a ottenere vittorie impossibili.
Passarono così sotto i miei occhi i suoi primi successi tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979, il duello ruota a ruota con Arnoux, il giro su tre ruote a Zandvoort e la vittoria di Scheckter a Monza sotto la sua protezione, vittoria che consegnò al sudafricano e al Cavallino il titolo mondiale del 1979. E poi le disperate gare del 1980, in cui provava a tirar fuori qualcosa di buono dalla “ciabatta” 312 T5, e i due trionfi a Montecarlo e a Jarama con l’ancora balbettante Ferrari turbo del 1981.
Arrivò così il 1982. La vittoria ai Mondiali della Nazionale di Bearzot, la gioia di uno scudetto sottratto all’ultima giornata proprio alla Fiorentina di mio padre e poi l’arrivo in estate di un grande campione nella squadra che seguivo con più attenzione: tutte queste cose cominciarono a determinare il mio lento e inesorabile avvicinamento al calcio, ma essenzialmente servivano a colmare un vuoto. Perché a Zolder, l’otto maggio alle 13 e 52 Gil era volato via.

federico