[articolo tratto da collettivotommiesmith.wordpress.com]
It was like a pebble into the middle of a pond, and the ripples are still traveling
è stato come un sasso in mezzo a un laghetto, e le increspature sono ancora in viaggio
Peter Norman, New York Times, 4 ottobre 2005
Fra i 12 atleti neri che votarono a favore del boicottaggio delle Olimpiadi di Città del Messico 1968, c’erano due fra i favoriti per i 200 metri uomini, John Carlos, 23 anni, nato e cresciuto ad Harlem, e Tommie Smith, una giovane promessa dell’atletica, 24 anni, texano, settimo di undici figli. Entrambi facevano parte dell’ Olympic Project for Human Rights, un movimento che lottava per i diritti civili nato alla fine 1967 in occasione degli imminenti giochi olimpici. Qualche tempo più tardi Carlos avrebbe dichiarato: “Siamo stufi di essere carne da parata alle Olimpiadi e carne da cannone in Vietnam”.
Il clima di quegli anni era infuocato, e la situazione dei diritti civili negli Stati Uniti era a dir poco allarmante, il brutale assassinio di Martin Luther King era avvenuto appena 6 mesi prima dell’inizio dei giochi e gli episodi di razzismo, discriminazione e violenza nei confronti della popolazione di colore erano all’ordine del giorno.
La votazione sul boicottaggio non seguì i desideri dei due atleti e la maggioranza decretò la partecipazione ai Giochi. Fu così che il 16 ottobre 1968 gli sguardi degli spettatori dell’Azteca, Città del Messico, erano puntati sulle due “frecce nere”, pronte a tutto per ottenere il risultato e ben consapevoli della responsabilità che quel giorno avevano sulle spalle. L’orgoglio e la soddisfazione dei due atleti di aver sudato e sacrificato se stessi per poter essere lì sui blocchi di partenza, erano in qualche modo macchiati dalla certezza che neanche il primo posto sarebbe servito a scuotere le situazione e a ridare dignità al proprio popolo. L’idea che se avessero vinto “avrebbe vinto un americano” e che in caso contrario “avrebbe perso un negro”[1], risuonava come un trapano nelle loro teste, un rumore insopportabile, forse interrotto soltanto dallo sparo dello starter. Comincia la gara.
La partenza di Smith non è delle migliori, è Carlos infatti che si impone nella fase iniziale, guadagnando circa due metri sugli avversari, è dopo la curva che il giovane texano sprigiona tutta la sua potenza e ne supera uno dopo l’altro, fino a non vedere più nessuno davanti a sé. A venti metri dal traguardo solleva le braccia sicuro della vittoria, 19 secondi e 83, record del mondo. Dietro di lui Carlos getta dei rapidi sguardi alla sua sinistra per assicurarsi del secondo posto, quando passa il traguardo con 20”10 non si accorge dell’australiano Peter Norman, 26 anni, che lo passa a destra completando la gara in soli 20”06 e conquistandosi il secondo posto. Ecco formato il podio che difficilmente il mondo si dimenticherà, passando quella linea nello strenuo sforzo di rubare qualche centesimo di secondo alla storia, questi tre giovani atleti cominciarono la vera gara della loro vita.
Prima della premiazione sulle facce dei due atleti di colore si può leggere la tensione, hanno deciso che essere i più veloci non basta, devono sfruttare questo momento di visibilità come palcoscenico per lanciare un messaggio di rabbia e di lotta per i diritti umani.
Si sarebbero presentati scalzi, per simboleggiare la povertà, inoltre Tommie aveva un foulard e John una collanina, in ricordo dei loro fratelli neri linciati durante le proteste, avrebbero dovuto indossare entrambi dei guanti neri simbolo del Black Power, ma nell’agitazione l’atleta di Harlem li aveva dimenticati. Fu Peter Norman, che ascoltandoli parlare suggerì loro di dividersi i guanti, Smith avrebbe preso il destro e Carlos il sinistro. L’australiano, soltanto apparentemente estraneo alla protesta decise di indossare, assieme ai suoi due compagni, la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights, appena sopra lo stemma della nazione.
Una volta saliti sul podio, al momento dell’inno nazionale, il mondo vide i due pugni neri sollevarsi al cielo e le teste dei due velocisti chinarsi, a completare il quadro di un’immagine ormai divenuta leggenda, Norman, statuario con lo sguardo fisso in avanti, fiero di poter prendere parte a questo silenzioso gesto di insurrezione e di protesta.
Contrariamente a quanto si possa pensare vedendo i filmati o le foto, Peter Norman è stato infatti molto di più di una semplice comparsa in quella lunga giornata messicana. Nonostante egli potesse benissimo dissociarsi da quella che, almeno apparentemente, non era la sua “guerra”, fece una scelta e la potenza del suo non-gesto fu pari a quella dei pugno alzati di Smith e Carlos.
Le riposte a questo plateale gesto rivoluzionario non tardarono ad arrivare, subito dallo stadio reazioni di ogni tipo si levarono rumorosamente, con fischi e insulti che la facevano da padrone sulle urla di consenso e approvazione, ma le vere conseguenze si ebbero in seguito e sono efficacemente sintetizzabili nelle agghiaccianti parole del capo delegazione USA Payton Jordan, che immediatamente dichiarò: “Se ne pentiranno per il resto della loro vita”. Per evitare il coinvolgimento del resto degli atleti in eventuali provvedimenti, i due furono immediatamente espulsi dalla squadra e dal villaggio olimpico, le scuse del comitato USA furono inviate al CIO. Da quel momento furono molti gli insulti, le minacce, gli atti vandalici e le ripercussioni che dovettero subire assieme alle relative famiglie, tanto che nel giro di qualche anno la moglie di Carlos decise di togliersi la vita e quella di Smith scelse di allontanarsi da lui.
Per Norman ovviamente le conseguenze furono minori ma non certo assenti, venne escluso dai Giochi di Monaco e anche quando, molti anni dopo, fu riconosciuta la natura rivoluzionaria del gesto, la sua figura rimase nell’ombra e non gli fu mai riconosciuto il merito dovuto a livello internazionale. Atleta impeccabile, tutt’oggi detentore del record sui 200 per l’Oceania, eroe nazionale e professore di educazione fisica, Peter Norman viene troppo spesso dimenticato o messo in secondo piano.
“Abbiamo avuto la nostra croce da portare qui negli Stati Uniti” – dichiara Carlos- “Peter ha avuto una croce più grande da sopportare perché non aveva nessuno lì per aiutarlo tranne la sua famiglia.” Muore per un attacco di cuore all’età di 64 anni, il 3 ottobre 2006, circa quaranta anni dopo il fatidico giorno, in quel momento “i rapporti personali fra Smith e Carlos sono pessimi. Comunicano ricordi diversi, ancora si disputano il merito di aver ideato il guanto di sfida, neppure i vecchi amici riescono a riavvicinarli. Nessuno dei due però, ha un attimo di incertezza, appena saputo della morte di Norman: decidono di volare in Australia” per rendere omaggio al loro amico e compagno.
Il coraggio a questi uomini è costato tanto, e alla domanda su un eventuale pentimento, Smith, qualche tempo dopo dichiarò: “Quel gesto era mio. L’ho pensato, voluto, creduto. Mi serviva, ci serviva. Non l’avessi fatto ora sarei una persona diversa, non sarei l’uomo che sono e che in fondo sono contento di essere”[2]
Diciannove secondi. Devono essere passati più o meno diciannove secondi, da quando tramite un amico ho saputo che Tommie Smith era in Italia per tre giorni, a quando mi sono ritrovato davanti alla porta di casa con lo zaino in spalla, quattro panini, una bottiglia d’acqua, la mia maglietta del Collettivo con il leggendario pugno stampato sopra, senza ovviamente la minima idea di come avrei fatto a incontrarlo.
L’ormai ex atleta era ospite d’onore al famoso meeting internazionale di atletica che si tiene ogni anno a Rieti, dedicato quest’anno a un’altra leggenda di questo sport, Pietro Mennea, che nel 1979 strappò il record proprio al texano con un incredibile 19”72.
Parto da Bologna quando ancora tutti dormono, mi aspetta un viaggio attraverso il centro Italia, con orari e coincidenza improbabili e nessuna certezza, nel tentativo di poter scambiare qualche parola con la leggenda che ha prestato il nome al nostro collettivo.
Dopo ore di attesa riesco a vederlo all’interno dell’area degli ospiti, mi butto sulle transenne e lo chiamo, dall’alto del suo metro e novanta si gira, mi guarda e sorride indicando la maglietta col pugno, nel mio terribile inglese, peggiorato dal caos del momento, farfuglio qualcosa di simile a complimenti e ringraziamenti vari, gli chiedo di fare una foto con me, esce dalle transenne mi stringe la mano (con la famosa mano!) e ci facciamo la foto prima che la sicurezza lo porti via per l’inizio della manifestazione.
Tredici ore di viaggio circa, per quel minuto con Tommie Smith, ma andava fatto, la fiamma che hanno acceso quei tre ragazzi decisi e impauriti sopra il podio, quasi cinquanta anni fa, è ancora accesa ed è anche nostro dovere tenerla viva.
Leonardo, Collettivo Tommie Smith
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[1] Tommie Smith dichiarò dopo la vittoria: “Oggi ho vinto, e ha vinto un americano. Se avessi perduto, avrebbe perduto un negro”
[2] cfr. Ghedini R., Il compagno Tommie Smith e altre storie di sport e politica, Malatempora, 2008, p. 12 e p.214