[qui la seconda parte]

30 novembre 1949, Inghilterra-Italia 2-0
Giulio Andreotti aveva già preannunciato a giugno, in Senato, che sarebbe stato lieto di recarsi a Wembley in occasione della trasferta della Nazionale, la terza del 1949 dopo quelle in Spagna e in Ungheria. E, infatti, a novembre ecco il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri assistere alla pronosticabile sconfitta degli azzurri e, al contempo, approfittare dell’impegno sportivo per inaugurare la sede londinese dell’Ente Nazionale Italiano del Turismo.
Quindi… Madrid-sì, anche se c’è Franco, ma ci hanno invitato e si sa che lo sport è apolitico; Budapest-no, perché sono comunisti e poi non ci hanno formalmente invitato (o non abbiamo fatto nulla per farci formalmente invitare?); Londra-sì, perché – ricordiamo – lo sport è apolitico e poi ad aprile ’49 l’Italia ha aderito al Patto Atlantico, «definendo la “svolta occidentale” della propria politica estera». Insomma, è ormai superfluo insistere su quanto fosse “bipolare” e manipolabile a proprio vantaggio questa “estraneità alla politica”, tanto proclamata e tanto reclamata per il suo CONI da Giulio Onesti, al momento del suo insediamento come presidente nel luglio 1946, e fatta così propria dall’amico Giulio Andreotti.

Nel maggio 1948 l’Inghilterra era venuta a giocare e stravincere in Italia, un incontro passato alla storia per il gol di Mortensen da posizione impossibile. I rapporti diplomatici e sportivi erano, dunque, ripresi, pur con una certa difficoltà, ma la Nazionale di calcio non giocava in trasferta contro la rappresentativa della perfida Albione da quando era chiamata ancora così, ovvero dal novembre 1934, da quel famoso 3-2 subito a Highbury strumentalizzato dal regime fascista e raccontato come una vittoria. Quel giorno gli azzurri non tirarono indietro la gamba e, alla lunga, furono gli inglesi a essere più ammaccati. Fu davvero una battaglia poco sportiva. Come sottolinea Nicola Sbetti in Giochi diplomatici. Sport e politica estera nell’Italia del secondo dopoguerra, questo precedente acuiva la necessità di far capire ai britannici che gli italiani adesso erano amici.

L’accoglienza riservata dai londinesi alla squadra azzurra fu comunque molto calorosa. L’incontro si giocò a White Hart Lane e vide l’Italia in partita per quasi tutto il match. Per gli azzurri difesa strenua, ma non cattiva, con Carlo Parola sugli scudi, e tante ripartenze in velocità che procurarono non pochi grattacapi al portiere dei bianchi, Williams. Poi, agevolati dal calo di rendimento di alcuni giocatori d’attacco, vedi Carapellese e l’oriundo Martino, nell’ultimo quarto d’ora di gioco gli inglesi presentarono il conto: sbloccarono il risultato con Rowley, al termine di una bella azione corale, e raddoppiarono con un tiro da fuori di Wright. Al minuto 40 Bertuccelli era stato fischiato dal pubblico per un brutto fallo su Froggatt. Ma era stato solo un momento, nessun fantasma di Highbury o della guerra. La stampa inglese convenne in modo unanime che il 2-0 finale era troppo punitivo nei nostri confronti e lodò molto il gioco azzurro.
Gli azzurri al ritorno furono premiati, nonostante la sconfitta. Qualcuno storse il naso e in risposta il presidente della FIGC Barassi dichiarò:

La gara di Londra era importante non solo ai fini del confronto tecnico ma anche a quelli del comportamento della squadra per sfatare dicerie e apprezzamenti poco benevoli che c’erano stati in passato in ordine ad alcune gare degli azzurri, compresa purtroppo quella del 1934 a Highbury.

Se la trasferta doveva essere una missione (anche) diplomatica, allora aveva colto nel segno.

Nell’immagine in evidenza, Wright e Carapellese si stringono la mano prima dell’inizio del match
Qui, la cena di gala dopo la partita. Foto dell’archivio Andreotti.
Fonti:
Nicola Sbetti,Giochi diplomatici. Sport e politica estera nell’Italia del secondo dopoguerra, Viella, 2020