Quando un gioco coinvolge miliardi di persone, smette di essere semplicemente un gioco: è la scintilla di guerre, sommosse e rivoluzioni; affascina e coinvolge non solo ogni sorta di disperati, ma anche capi di stato, dittatori e terroristi […]. Dal campo di gioco si può finire su quello di battaglia, per passare dal calcio a un pallone al dito premuto sul grilletto d’un fucile.

Paolo Sidoni

Il ragionamento citato è vero a maggior ragione quando si parla di America Latina, terra in cui appunto il calcio spesso smette di essere semplicemente un gioco. Basti pensare ad Andrés Escobar, ucciso dopo un’autorete contro gli Stati Uniti ai Mondiali del 1994 da un sicario che pare abbia urlato “grazie per l’autogol!” prima di sparare. O al direttore del carcere messicano di Chilpacingo, che dopo la vittoria della sua nazionale sul Belgio ai Mondiali del 1970 si è messo a sparare in aria gridando “Viva México!” guerrafutbol1e ha liberato 142 ergastolani, per poi essere assolto dal tribunale per aver “agito in preda a un raptus patriottico”. L’avvenimento più eclatante è, però, la cosiddetta Guerra del Fútbol, molto ben narrata dal reporter polacco Ryszard Kapuściński [1]. Conosciuta anche come Guerra delle Cento Ore, è scoppiata nel 1969 tra Honduras ed El Salvador dopo la sfida tra le rispettive nazionali valida per le qualificazioni a Messico 1970. È chiaro che ridurre il casus belli di un conflitto che ha provocato circa seimila morti a tre partite di calcio sarebbe semplicistico e oggettivamente sbagliato: lo sport ha rappresentato in questo caso la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso di tensioni che si sono accumulate negli anni, addirittura a partire dall’indipendenza dei due stati dopo il dominio spagnolo.

LE PREMESSE.  Oltre a lamentare l’esiguità del proprio territorio rispetto a quello honduregno, El Salvador rivendicava anche uno sbocco sull’Atlantico; in più, riguardo al Pacifico, storceva il naso di fronte all’esclusiva sovranità honduregna sul Golfo di Fonseca, un grande crocevia commerciale al riparo dagli uragani, molto frequenti in quella zona. La situazione, perlopiù mite per circa un cartinasecolo, subì una svolta negli anni sessanta, quando gli Stati Uniti spinsero per creare un mercato comune centroamericano allo scopo di installare in questa regione grandi piantagioni, soprattutto di banane. Tale mercato non prevedeva un organismo di controllo, quindi i dollari statunitensi si concentrarono negli stati con un più alto grado di sviluppo tecnologico, e in questo senso El Salvador era più avanzato rispetto all’Honduras. I cittadini salvadoregni trassero inizialmente benefici economici da questa situazione, ma ciò comportò un boom demografico insostenibile per uno Stato così piccolo e prevalentemente agricolo, in cui i terreni coltivabili (gestiti peraltro da sole 14 famiglie di grandi latifondisti) per forza di cose iniziavano a scarseggiare. Il governo salvadoregno decise così di rivolgersi al vicino Honduras, dove la situazione era opposta: il territorio era sei volte più grande, ma gli abitanti erano circa la metà, quindi i terreni incolti pullulavano e il governo honduregno era deciso a sfruttarli.

I due stati così firmarono nel 1967 la Convenzione bilaterale sull’immigrazione, secondo cui i cittadini salvadoregni potevano transitare, risiedere e lavorare in Honduras: oltre 300.000 contadini varcarono ben presto il confine alla ricerca di una nuova vita, fondando villaggi e coltivando terreni fino a quel momento inutilizzati. Questo grande spostamento di persone non fu, però, ben accolto dai contadini honduregni, che tramite il loro sindacato iniziavano a fare pressione sul Governo di Tegucigalpa per ottenere salari più alti e condizioni di vita più accettabili. Il presidente (poi dal 1972 dittatore) Oswaldo Lòpez Arellano avviò quindi una riforma agraria per ridistribuire terreni, ma non volendo perdere l’appoggio statunitense pensò bene di non restituire ai contadini locali i possedimenti dell’influente United Fruits (l’attuale Chiquita) e di altre multinazionali, ma di andare a riprendere i terreni in cui si erano insediati i salvadoregni. Precisamente, un provvedimento dell’aprile 1969 prevedeva la confisca delle terre e l’espulsione di tutti coloro che avevano nel Paese proprietà terriere, ma senza essere nati in Honduras. Tutti i contadini salvadoregni furono quindi privati di tutto e rispediti in patria, dove ovviamente non avevano più nulla. El Salvador provò in tutti i modi a indurre Honduras a fare un passo indietro, soprattutto per la difficoltà nella gestione del reinserimento dei profughi, ma senza esito: i rapporti diplomatici tra i due stati si fecero inevitabilmente tesissimi, ed è in questo scenario che si va a collocare la sfida per la qualificazione ai Mondiali del 1970.

Il calcio contribuì a rinfocolare lo sciovinismo e l’isteria patriottica, tanto necessari per scatenare la guerra e rafforzare il potere dell’oligarchia di entrambi i paesi.

Ryszard Kapuściński

LA CONTESA CALCISTICA. Tegucigalpa, 8 giugno 1969. È in programma nella capitale honduregna l’andata della semifinale  per la qualificazione ai Campionati del Mondo dell’anno successivo, proprio contro El Salvador [2]. I giocatori ospiti arrivano in Honduras solo la sera prima per evitare di trovarsi in mezzo a disordini, ma la loro trasferta si trasforma ben presto in un incubo; i tifosi locali prendono di mira l’albergo in cui alloggiano gli odiati avversari e fanno di tutto per non far dormire la rappresentativa salvadoregna, lanciando oggetti contro le finestre e suonando i clacson per tutta la notte. L’indomani l’insonnolita e intimidita nazionale di El Salvador viene sconfitta per 1-0 [3], il gol vittoria per l’Honduras arriva dopo 89 minuti di gioco e provoca un altro episodio destinato ad alimentare ulteriormente la tensione. A San Salvador la diciottenne Amelia Bolanos stava guardando la partita in tv: al gol subìto dalla sua nazionale prende la pistola del padre e si spara al cuore. Il governo salvadoregno organizza subito i funerali di stato con tanto di presidente della Repubblica, personalità politiche e militari, nonché i calciatori sconfitti in Honduras. L’indomani il quotidiano El Nacional scrive che la giovane non aveva retto nel vedere “la sua patria messa in ginocchio”.

San Salvador, 15 giugno 1969.  Amelia Bolanos nella settimana trascorsa tra le due partite era così diventata una sorta di eroina nazionale, in suo nome i salvadoregni gridavano vendetta e con le sue foto in mano accolgono l’autobus che trasporta la rappresentativa honduregna. Anche in questo caso la notte precedente all’incontro l’albergo in cui alloggiano i giocatori è assediato, ma il clima è ancora più teso di sette giorni prima. I calciatori al mattino sono scortati da carri armati per essere accompagnati allo stadio Flor Blanca, anch’esso circondato dall’esercito durante il match. La nazionale honduregna pensa saggiamente a salvarsi la pelle più che a vincere la partita, a maggior ragione dopo aver sentito il proprio inno coperto dai fischi e visto la sua bandiera bruciare: infatti il risultato finale è 3-0 per El Salvador [4]. “Meno male che abbiamo perso”, commenta  l’allenatore dell’Honduras Mario Griffin. La squadra è scortata anche per raggiungere l’aeroporto, ma tra i tifosi ospiti che cercano di fuggire verso la frontiera (peraltro chiusa alcune ore più tardi) si riscontrano due morti e decine di feriti, oltre a circa 150 automobili date alle fiamme.

Città del Messico, 27 giugno 1969. Il regolamento delle qualificazioni mondiali per la CONCACAF prevedeva l’accesso alla finale per la squadra che avrebbe ottenuto più punti nella mini-classifica determinata dai due incontri, senza concepire né la regola dei gol in trasferta né quella della differenza reti. Honduras ed El Salvador, avendo vinto una partita a testa, sono quindi costrette a giocarne una amcen-guerradelfutbol1terza in campo neutro. Lo stadio scelto per questo delicatissimo match è il mitico Azteca, costruito poco tempo prima [5]; le due contendenti arrivano all’appuntamento imbottite di propaganda mediatica contro i rispettivi nemici, tensione quindi alle stelle. Ma stavolta è partita vera e si conclude 2-2 nei novanta minuti; ai supplementari la spunta El Salvador con un gol al 101′ di Mauricio Rodriguez[6], che molto probabilmente non sospetta cosa sta per scatenare la sua rete .

IL CONFLITTO. Al fischio finale le due tifoserie si scontrano già dentro l’Azteca, ma poi i tafferugli si protraggono anche all’esterno generando una vera e propria guerriglia urbana. Il governo di Tegucigalpa decide la sera stessa di interrompere qualsiasi relazione diplomatica con El Salvador e di inasprire i provvedimenti contro gli immigrati salvadoregni rimasti nonostante l’espulsione. Intanto a San Salvador iniziano le manovre dell’esercito e viene dichiarato lo stato d’emergenza.

Il 14 luglio, senza una dichiarazione di guerra, El Salvador attacca Honduras adducendo come motivazione la salvaguardia dei propri cittadini e dei propri confini. L’attacco è sia aereo che terrestre e guerrafutbol2una bomba cade anche su Tegucigalpa. L’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) immediatamente intima il cessate il fuoco minacciando sanzioni economiche a entrambi gli stati, ma inizialmente El Salvador si rifiuta, la sua volontà è quella di portare avanti il conflitto finché tutti i suoi cittadini non siano messi al sicuro. L’esercito honduregno, però, riesce a respingere una pericolosa offensiva e l’Alto Comando dell’esercito salvadoregno il 20 luglio accoglie il provvedimento dell’OSA. È durata così solo sei giorni, cento ore, ma hanno perso la vita circa seimila persone, decine di migliaia i feriti, circa 150.000 rimasti senza casa e terra,  molti i villaggi distrutti. La fine delle ostilità però non normalizza affatto i rapporti tra i due Stati: basti pensare che il trattato di pace verrà firmato solo nel 1980, undici anni dopo. La questione dei confini provvisori invece verrà risolta dalla Corte Internazionale di Giustizia solo nel 1992.

Kapuściński conclude il suo racconto con questa riflessione:

I due governi sono rimasti soddisfatti della guerra, perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e suscitato l’interesse dell’opinione pubblica internazionale. I piccoli stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Strano ma vero.

Già, strano ma tristemente vero.

daniele

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[1] Ryszard Kapuściński, “La prima guerra del football e altre guerre di poveri”, Serra e Riva, Milano, 1990.

[2] Con il Messico qualificato d’ufficio in quanto Paese ospitante, erano 12 le nazionali a contendersi l’unico posto al Mondiale previsto per la CONCAFAF, la federazione di centro e nord America. Erano divise in 4 gironi da 3 squadre e le rispettive vincitrici avrebbero poi disputato le semifinali e la finale. Nell’altra semifinale Haiti batte gli Stati Uniti.

[3] Honduras: Varela; Metamoros, Dick, Bulnes, Wells; Mendoza,Marshall (Mejía), Rosales (García), Cardona; Gómez, Bran. Allenatore: Griffin. El Salvador: Fernández; Rivas, Castro, Vásquez, Mariona; Osorio,Quintanilla, Rodríguez, Martínez; Barraza (Flamenco), Estrada(Mendez). Allenatore: Carrasco. Arbitro: Yamasaki ( Perù) Marcatori: 89′ Wells.

[4]  El Salvador: Fernández; Rivas, Manzano (Osorio), Vásquez,Mariona; Flamenco, Quintanilla, Rodríguez, Martínez; Monge,Acevedo. Allenatore: Carrasco. Honduras: Varela; Metamoros, Dick, Bulnes, Wells; Mendoza,Marshall, Urquia, Cardona; Gómez, Bran. Allenatore: Griffin. Arbitro: Van Rosberg ( Antille Olandesi) Marcatori: 27′ rig. Martínez, 30′ Acevedo, 41′ Martínez.

[5]  Lo stadio fu costruito per le Olimpiadi del 1968, ma è passato alla storia come teatro di quella che secondo molti è la “partita del secolo”, cioè Italia-Germania 4-3 del 17 giugno 1970, e all’esterno dell’impianto è stata anche affissa una targa celebrativa che recita “El Estadio Azteca rinde homenaje a las selecciones de Italia (4) y Alemania (3) protagonistas, en el Mundial de 1970, del PARTIDO DEL SIGLO. 17 de junio de 1970”.

[6]  El Salvador: Fernández (Suarez); Rivas, Manzano, Vásquez,Mariona; Flamenco, Quintanilla, Rodríguez, Martínez; Monge,Acevedo (Bucaro). Allenatore: Carrasco. Honduras: Varela; Deras, Dick, Bulnes, Wells; Mendoza, García,Rosales (Mejía), Cardona (Lagos); Gómez, Bran. Allenatore: Griffin. Arbitro: Aguilar (Messico) Marcatori: 10′ Martínez, 19′ Cardona, 29′ Martínez, 50′ Gómez, 101’Rodríguez. Per la cronaca poi El Salvador si è qualificata per Messico 1970 battendo Haiti, sempre dopo tre partite, nel campo neutro di Kingston, Jamaica.