Un po’ per i risultati raggiunti dalla Nazionale, un po’ per lo sbarco in Serie A di alcuni grandi club della massima serie maschile, il calcio italiano al femminile ha fatto parlare di sé negli ultimi mesi. Anche se non con l’eco e il rispetto che meriterebbe, specie sulla stampa sportiva. Del resto, come scrive Marco Giani, ricercatore e, come noi, membro della Società Italiana di Storia dello Sport: «In un paese sessista come l’Italia […] il football rimane una questione di genere». Rimane perché lo è stato sin da principio e la vicenda del Gruppo Femminile Calcistico lo dimostra a pieno.
Nella prima puntata abbiamo scoperto quali erano le sue particolarità, come tale esperienza si inseriva nella Milano anni Trenta e come stampa e autorità varie del regime reagirono alla nascita di questo gruppo sportivo. In questa seconda parte Marco Giani ci racconterà come andò a finire la storia del G.F.C.. Facendo inevitabili raffronti con la situazione attuale.
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Calcio Romantico: Come e perché si concluse l’esperienza del G.F.C.?
Marco: Innanzitutto, ci fu una ragione di ordine interno. Il gerarca Leandro Arpinati, nel dare via libera all’attività del G.F.C. a inizio aprile del 1933, aveva posto come condizione imprescindibile le porte chiuse e, in effetti, da marzo a maggio, le calciatrici permisero solo ad amiche e parenti di assistere alle loro partite o ai loro allenamenti. In totale, si arrivava sì e no a un centinaio di spettatori.
Poi, l’11 giugno 1933 si disputò la prima partita ufficiale, come la definì Il Calcio Illustrato che per l’occasione fornì ai lettori cronaca e tabellino del match. Rimane ancora da capire quanto le ragazze fossero coscienti della linea che stavano oltrepassando e, quindi, non mi è possibile allo stato attuale dire se in loro c’era più ingenuità o più voglia di trasgredire a quanto imposto loro dall’autorità che pure, fino a quel momento, le aveva protette. Fatto sta che, davanti a mille spettatori circa, per la prima volta le due squadre interne del G.F.C.[1] si presentarono con due denominazioni ufficiali, rispettivamente Gruppo Sportivo Ambrosiano e Gruppo Sportivo Cinzano, e diedero vita a un incontro che finì 1-0 per quest’ultimo. Curiosità: entrambe le formazioni avevano un portiere maschio, perché le ragazze prudentemente avevano deciso di sfilarsi da tale ruolo, conoscendo la fobia dei critici maschili per lo scontro fisico che avrebbe potuto debilitarle a fini riproduttivi (d’altra parte per evitare l’altro inconveniente morale, ossia la promiscuità, optarono per dei ragazzini di tredici anni, ritenuti inoffensivi su quel versante)
A inizio luglio, si giocò almeno un’altra partita ufficiale, tanto che i dirigenti dell’Ambrosiana-Inter pensarono bene di farvi assistere i loro colleghi dello Sparta Praga, in quel momento a Milano per disputare la semifinale della Mitropa Cup.
Molto più influenti sul destino del G.F.C. furono, però, le ragioni di ordine esterno. Nei primi giorni di maggio a Roma era, infatti, “caduto” Arpinati. E se c’era il sospetto che il gerarca bolognese avesse avuto un occhio di riguardo nei confronti del gruppo di calciatrici milanesi, ora c’era la sicurezza che quella eventuale protezione era saltata.
Ci volle tutta un’estate perché Achille Starace e il suo fido Giorgio Vaccaro fossero nominati successori di Arpinati alla guida, rispettivamente, di CONI e FIGC, ma già verso la fine della bella stagione i primi segnali di discontinuità col passato erano arrivati. Dal momento che -come già accennato nella prima parte dell’intervista– conquistare successi e medaglie olimpiche a livello femminile era diventato una priorità del regime, Starace lanciò un diktat: le società sportive di atletica leggera, nuoto e pallacanestro erano caldamente invitate a dotarsi di una sezione femminile.[2]
Il fatto che a settembre, alla ripresa delle attività sociali, le notizie delle calciatrici sulla stampa cominciassero a rarefarsi e a divenire molto più frammentarie, fu un altro incontrovertibile segno del nuovo clima instauratosi.
Intanto altre ragazze in giro per l’Italia (Settentrionale, essenzialmente, più Roma) avevano raccolto il sasso lanciato dal G.F.C. e avevano fondato dei gruppi locali. ispirandosi alle vicende delle milanesi apprese tramite i giornali. Quello più interessante era nato ad Alessandria, organizzato a tal punto da prendere contatti e accordi con il G.F.C.. Per il 1° ottobre 1933 era addirittura in programma nella città piemontese quella che poteva diventare, a tutti gli effetti, la prima partita inter-cittadina del calcio femminile italiano. Ma di fronte ad un’infrazione così palese delle condizioni poste dal comunque già decaduto Arpinati, le autorità fasciste di Alessandria intervennero e annullarono l’incontro.
Poi il 22 novembre Il Littoriale (organo ufficiale del CONI), entrato nel frattempo in polemica con L’Osservatore Romano circa la pratica sportiva femminile propagandata dal regime fascista, pubblicò un editoriale, con il quale assicurava che il CONI aveva fatto il suo dovere nello stroncare le discipline irregolari in Italia, quali il pugilato e, appunto, il calcio.
In effetti, dopo la fine del 1933 la stampa non diede più notizie riguardanti il G.F.C..[3] Ma che fine fecero le ragazze milanesi? Il regime, con molta semplicità, una bella domenica mattina mandò presso il loro campo degli allenatori di atletica, che misero in piedi il Gruppo Sportivo Giovinezza. In sostanza, furono convinte (non si capisce quanto coercitivamente) a praticare l’atletica leggera: alcune di loro avrebbero avuto una discreta carriera negli anni a seguire a livello regionale, mentre Maria Lucchese avrebbe ottenuto soddisfazioni anche a livello nazionale nel mezzofondo e nella corsa campestre.
Nei mesi successivi molte delle ex del G.F.C. cominciarono a dedicarsi anche alla pallacanestro e la cannoniera Rosetta Boccalini, la migliore con la palla tra i piedi secondo tutti coloro che riuscirono a vederla giocare, divenne cestista dell’Ambrosiana, squadra con cui vinse ben tre volte il titolo nazionale.
È, però, fra le alessandrine che si trova la ex calciatrice con la più sorprendente carriera extracalcistica: Amelia Piccinini, campionessa nazionale di pentathlon già nel 1935 e vincitrice di altri 19 titoli italiani in carriera[4], nel 1948 a Londra andò a conquistare un tardivo quanto inaspettato argento olimpico nel getto del peso.
CR: Sono passati quasi novanta anni da quella esperienza, eppure quel linguaggio usato allora per denigrare il calcio al femminile ci suona molto familiare. Tu, in genere, quali elementi di continuità e quali di rottura individui tra il mondo sportivo e non solo in cui le ragazze del G.F.C. si trovarono ad agire e la situazione attuale?
M.: La domanda mi permette di concludere il discorso iniziato nella risposta precedente. Perché va bene il mancato appoggio di Arpinati, va bene la necessità di vincere le medaglie olimpiche che, sia pure a fascismo caduto, avrà nell’argento olimpico della Piccinini la sua nemesi, ma credo che, sotto sotto, il vero non confessato motivo della chiusura totale al calcio femminile fosse un altro… Altrimenti non si capisce perché in quello stesso 1933 nessuno si preoccupò di stroncare il nascente canottaggio femminile, che all’epoca non era previsto dal programma dei Giochi Estivi, alla pari di calcio o pallacanestro femminile.
Il fatto è che il pallone si era così imposto come lo sport nazionale maschile che nell’immaginario, il calciatore era maschio, anzi era il maschio per eccellenza. Si pensi al personaggio Meazza, al Balilla, genio calcistico e sciupafemmine. La presenza femminile allo stadio era da molta stampa ormai accettata come pittoresca e, in fondo, era un modo indiretto per celebrare proprio la virilità di gente come Meazza, giacché le tifose andavano sugli spalti per ammirare i giocatori.
Le ragazze del G.F.C. volevano, quindi, appropriarsi di un ruolo che non era il loro e per questo venivano accusate alternativamente di essere mascolinizzate, di essere diverse dal modello della donna italiana, di essere destinate ad essere cattive madri, di essere troppo brutte (come dei maschiacci), ma anche di essere troppo belle (come delle girls, le ballerine dell’epoca). Si sosteneva, poi, da più parti che lo sport che avevano deciso di praticare avrebbe deformato il loro corpo in senso eccessivamente maschile, oppure avrebbe precluso loro la gravidanza, a causa dei colpi nelle parti basse, venendo quindi meno a ciò che il regime si aspettava da ogni donna.
Tutti pregiudizi con cui invariabilmente si scontrarono anche le nuove pioniere del calcio femminile italiano, rinato nel Secondo Dopoguerra senza nessuna continuità storica con quello del 1933 e in un’Italia, liberata dal fascismo ma con una mentalità ancora profondamente maschilista.
Così, a fare da cornice agli articoli che raccontavano i primi esperimenti sportivi del periodo 1945-1968, è facile trovare fotografie con didascalie sessiste e vignette con battute persino più pesanti, se confrontate con quelle del 1933 (quanto è importante, nel campo della rappresentazione, la presentazione delle immagini!): le calciatrici, “finalmente” in pantaloncini corti, se non cortissimi, rispetto alle scomodissime gonne milanesi, venivano spesso presentante dai loro “patron” come fenomeno da baraccone. Si veda, ad esempio, questo servizio RAI datato 1966 su di un’amichevole giocata nel piacentino e, per capire quale fosse l’impegno delle ragazze, si consideri che nel 1968 la Pro Loco Travo avrebbe partecipato al primo campionato italiano di calcio femminile e nel 1971, dopo essersi spostata nel capoluogo, lo avrebbe vinto con la denominazione Piacenza Associazione Calcio Femminile.
Appare poi incredibile che ancora nel 1983 il giornalista RAI Giorgio Martino, in assoluta buona fede, sentisse la necessità di rassicurare i propri telespettatori, facendo dire a chiare lettere al medico della Roma Alicicco che non c’erano controindicazioni per le donne rispetto alla pratica del calcio.
Paradossalmente, le ragazze del G.F.C. da questo punto di vista erano più avanti e, avendo ottenuto una rassicurazione scritta in tal senso da Nicola Pende, luminare della medicina sotto il fascismo, l’avevano agitata sotto il naso del direttore de Il Littoriale, costretto a malincuore a pubblicarla.
Forse una differenza rispetto alla situazione odierna, non so se sostanziale, o se dovuta a una questione di sensibilità -come se a certe cose sulla stampa non si dovesse nemmeno accennare, neanche per scherzo- è quella legata all’ambito sessuale: nessuno accusava le calciatrici di essere «quattro lesbiche» (come da famosa polemica nata nel 2015 a partire delle parole dell’allora presidente della Lega Nazionale Dilettanti Belloli), ma si sosteneva che l’attività dello sport avrebbe modificato in senso troppo maschile il loro corpo. L’accusa, quindi, riguardava il corpo delle calciatrici, quello che “ovviamente” doveva servire per l’ascesa demografica dell’Italia mussoliniana, e non l’orientamento sessuale.
Nell’alternanza permesso temporaneo di Arpinati / chiusura di Starace vedo, poi, una vaga somiglianza con quanto accaduto in questa estate 2018, col campionato femminile continuamente sballottato a destra e a sinistra fra Lega Nazionale Dilettanti e FIGC senza che le calciatrici siano padrone al 100% del loro destino. In entrambe le vicende c’è il riflesso della dura verità che attraversa questi ottanta anni e più di calcio femminile in Italia: sono le donne a giocare, ma sono gli uomini a decidere se e come possono farlo.
CR: Il tuo racconto è stato davvero esauriente e pieno di spunti. Vuoi dire qualcos’altro in chiusura?
M.: Mi piacerebbe concludere raccontando l’impressione ricevuta qualche mese dalla visione di un video messo on line dalla Juventus Women, #WOMENF1RST: The Juventus Women (R)evolution. Un bel video perché, oltre a parlare dell’impresa sportiva delle bianconere -la conquista del primo scudetto- gli ideatori hanno allargato lo sguardo, provando a dare allo spettatore un’idea dello stato di salute della disciplina nel nostro paese.
In particolare, mi hanno molto impressionato i diversi tipi di sguardo. Mentre Tuija Hyyrynen, ridendo, raccontava di essersi accorta con stupore che per le compagne di squadra italiane giocare a calcio non era così normale come per lei in Finlandia, l’allenatrice Rita Guarino -ex calciatrice da cento presenze in Nazionale e cinque scudetti vinti- e le varie Bonansea, Glionna o Gama riproponevano un tipo di auto-narrazione sportiva del tipo «pur in mezzo a mille difficoltà che parevano insormontabili, ce l’ho fatta, perché ci ho creduto tantissimo» (nel racconto dell’allenatrice ovviamente le difficoltà erano moltiplicate per mille, e si notava una punta di rimpianto per la situazione sicuramente più agevole delle proprie calciatrici nell’Italia del 2018).
Dico questo perché mi pare -da narratore esterno maschile di un piccolo pezzo di storia del calcio femminile- che uno degli aspetti più affascinanti, nel 1933 come nel 2018, sia il grande senso di dignità di queste ragazze italiane che hanno deciso di dedicarsi allo sport nazionale maschile con la consapevolezza che praticarlo non sia una cosa scontata, ma un diritto spesso calpestato, da difendere eventualmente coi denti.
Sono situazioni che suscitano ammirazione perché vanno a toccare qualcosa di molto profondo in noi. Sperando che in un giorno non troppo lontano per ciascuna italiana giocare a calcio (così come a qualsiasi altro sport o gioco, ovviamente) dipenda solo ed esclusivamente dalla propria volontà e non da disturbanti fattor esterni, non posso che continuare a raccontare, nel mio piccolo, le prime che provarono a strappare, in tempi non certo facili, quel diritto.
CR: Ringraziamo Marco e aspettiamo i suoi prossimi racconti
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[1] In allenamento il G.F.C. si divideva costantemente in due squadre
[2] La pallacanestro femminile non era ancora sport olimpico, ma nel 1938 l’Italia avrebbe conquistato, vincendo in finale contro la Lettonia, il primo Campionato Europeo
[3] Le alessandrine ancora per la prima parte del 1934 riuscirono ad allenarsi a porte chiuse, sempre più demoralizzate
[4] Il pentathlon è l’antenato dell’attuale eptathlon femminile e fu specialità olimpica dal 1964 al 1980. Non va confuso con il pentathlon moderno. La Piccinini nella sua carriera ottenne quattro titoli italiani nel salto in lungo, quattro nel pentathlon e ben dodici nel getto del peso; l’ultimo titolo lo conquistò nel 1954 a 37 anni nel peso, specialità in cui ottenne anche il bronzo agli Europei del 1946
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