C’è un calcio italiano pre Carta di Viareggio e uno post. La massiccia entrata all’interno della Federcalcio dei gerarchi del Partito Nazionale Fascista, l’invenzione degli oriundi, la nascita di squadre come Roma o Fiorentina, la riorganizzazione dei campionati, sono solo alcune delle conseguenze di quanto fu messo nero su bianco nella località balneare della Versilia il 2 agosto 1926 dall’ingegnere – e presidente del Bologna – Paolo Graziani, dal gerarca romano Italo Foschi e da Giovanni Mauro, avvocato milanese, nonché poco imparziale arbitro di uno spareggio Bologna-Genoa l’anno precedente.
La svolta più grande per chi la domenica scendeva in campo –cacciata dei giocatori austriaci e ungheresi a parte- era però un’altra: da quel momento in poi, infatti, ci sarebbe stata la possibilità di assumere lo status di “calciatore non dilettante” e, quindi, di avere diritti a rimborsi spese per il mancato guadagno derivante da altra attività, sulla falsa riga di quanto aveva appena deliberato la FIFA.
Di quanto in generale fosse ipocrita appoggiarsi alla filosofia amateur per giustificare l’impossibilità di ricevere direttamente o indirettamente compensi per l’attività sportiva, abbiamo già detto altrove. Da questo punto di vista, la prima apertura al professionismo è certamente un passo avanti, se non altro perché poneva fine a una lunga stagione di querelle, procedimenti disciplinari e squalifiche che il “sottil morbo” non avevano comunque estirpato.
Tuttavia Antonio Ghirelli nella Storia del calcio in Italia, edita nel 1954, traccia un bilancio complessivo poco lusinghiero dei primi ventotto anni di professionismo in Italia, additando l’origine di uno dei mali del calcio nostrano alla volontà della FIGC di rimanere con un «ambiguo ordinamento dei giocatori»:
Una definizione netta del professionismo avrebbe giovato enormemente ai giocatori, alla sana amministrazione delle società, alla moralità dell’ambiente, così come dimostra l’esempio dell’Inghilterra. Ma i dirigenti temevano la chiarezza amministrativa e non solo per motivi di ordine fiscale
All’introduzione di un non dilettantismo privo di specifiche normative che regolassero il rapporto tra club e calciatore, Ghirelli imputa, quindi, la nascita di quel processo che sin dagli anni Trenta porterà, da un lato, al proliferare di accordi sotto banco e, dall’altro, a far salire il prezzo del calcio. E chiude ricordando quanto scritto qualche anno prima dal saggista Carlo Doglio: fino al 1926 l’aneddotica dei club, anche di quelli più famosi, «citava anche i centesimi», dopo, invece, su tutte le questioni che riguardavano la gestione economica cadde il «silenzio assoluto».
Letta a oltre sessanta anni di distanza, questa breve e sfuggente analisi ha un che di datato e di moderno insieme. Sorprende, infatti che Ghirelli dia implicitamente del lavoratore al giocatore di pallone e mostri maturità nel considerare gli aspetti economici e sociali legati al calcio, concetti difficili da far passare ancor oggi. Il giudizio complessivamente negativo sulla riforma dello status mostra, però, i limiti di un certo approccio storiografico, diremmo idealista, che mette in primo piano la «moralità dell’ambiente» e sembra ridurre il tutto a una questione etica. Fa sorridere, infine, il ricorso anche da parte del primo vero storico del calcio italiano alla citazione del calcio inglese come exemplum che si sarebbe dovuto seguire. Una pratica che si ritrova frequentemente anche adesso in molti discorsi riguardanti gli argomenti più disparati, dagli stadi di proprietà alla lotta alla violenza, dalla bellezza della coppa nazionale al fairplay dei giocatori che non chiedono all’arbitro di ammonire l’avversario.
Una pratica da cui, tra l’altro, anche noi non riusciamo ad esimerci in questa sede, benché il nostro, più che un rifugio nel mito del football d’oltremanica, sia un necessario ricorso alla storiografia britannica per analizzare più da vicino quell’«esempio dell’Inghilterra» di cui parla Ghirelli e trarne qualche considerazione.
Ci affidiamo al quadro che traccia Matthew Taylor in The Association Game: A history of British football, in riferimento all’intervallo di tempo che intercorre tra il via libera dato dalla Football Association al professionismo (1890) e la definitiva sua affermazione sull’amateurism (1914), un intervallo per lunghezza paragonabile a quello considerato da Ghirelli.
Per lo storico inglese il professional football player va considerato alla stregua di uno della working class che godeva di vantaggi -relativi soprattutto alle condizioni di lavoro- rispetto a chi nello stesso periodo ogni giorno si recava in fabbrica o in officina, ma al contempo non era esente da problemi che definiremmo sindacali.
Ad esempio, a differenza di qualunque altro operaio che poteva decidere autonomamente di lasciare il proprio posto di lavoro, i calciatori erano soggetti al retain-and-transfer system, che di fatto permetteva solo le cessioni gradite al club di appartenenza. Una clausola, inoltre, consentiva di non pagare chi veniva inserito nella lista dei non graditi fino a un suo eventuale trasferimento in altra società. Un mobbing in piena regola.
La gestione degli infortuni, l’equivalente della malattia per i lavoratori, era poi lasciata alle singole società finché nel 1907 rappresentanti di club della Football League, della Southern League e della Scottish League non formarono la Football Mutual Insurance Federation. La costituzione di una vera e propria associazione sindacale di categoria era, infatti, vietata dalla Football Association.
Per quanto riguarda i compensi, infine, essi erano potenzialmente molto alti e, anche se all’inizio della stagione 1901/02 erano stati vietati i bonus ed era stato introdotto il maximum wage, ovvero il tetto salariale, un calciatore di buon livello poteva ambire a uno stipendio di quattro sterline alla settimana, il doppio circa di quanto percepivano operai specializzati e capireparto nelle industrie. La media era, però, decisamente inferiore, e, infatti, a prendere il massimo nel 1910 ci arrivavano solo 573 dei 6800 professionisti sotto contratto con club di Football League o Southern League.
I dati riportati da Taylor sono estremamente interessanti perché ci restituiscono un quadro in cui il lavoro del professional football player sembra perfettamente inserito all’interno di un tessuto produttivo, basato prevalentemente sulle grandi industrie e teso a far sì che ogni operaio renda al massimo, anche grazie a opportuni e non esagerati incentivi, costi il minimo, specie quando non più utile, e soprattutto non dia fastidio.
Ma, attenzione… non è l’Inghilterra fine XIX secolo inizio XX l’eccezione ed è proprio questo il punto che vorremmo sottolineare. Tutte le attività, compresa quella sportiva ad alto livello, producono e riproducono sempre la società che le determina. Per questo, quell’«esempio dell’Inghilterra» così ingenuamente evocato da Ghirelli non avrebbe mai potuto trovare posto nell’Italia poco industrializzata e molto fascistizzata del 1926.
federico