E il football iniziò a chiamarsi calcio. 2° puntata

Un po’ di stracci, del cuoio oppure vesciche di animali riempite con capelli, sughero o chissà cos’altro e tanta tanta fantasia. Non c’è mai voluto molto per fare una palla. Poi via a farla rimbalzare, rotolare, a toccarla con mani o piedi al fine di raggiungere un obiettivo prefissato, il goal, con l’aiuto di quelli della stessa squadra e a danno di quelli dell’opposta fazione. Non c’è mai voluto molto per fare una palla e per costruirle intorno un gioco ancor meno. Sin dall’antichità.

Donne cinesi giocano a tsu-chu (di Da Jin, XIV-XV sec.)

Donne cinesi giocano a tsu-chu (dipinto di Da Jin, XIV-XV sec.)

Del resto nelle società economicamente o socialmente più evolute la scoperta del tempo non legato al lavoro aveva portato al potenziamento di attività dedicate alla cura del proprio corpo e del proprio fisico. Non era però detto che chiunque avesse tempo volesse sempre e solo fare esercizi per migliorare la propria muscolatura o prendere a calci, cazzotti e botte di mazza in testa un proprio simile. Alle donne poi non era certo concesso dedicarsi a giochi che non prevedessero grazia e maestria. Nacquero così giochi che, oltre a una buona attività fisica, richiedevano una maggiore cooperazione con altri soggetti. Come i giochi con la palla.
La nostra visione calciocentrica ci porta forse a cercare antenati dello sport più amato in ciascun gioco con la palla che abbia divertito persone di qualsiasi estrazione sociale, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi periodo antecedente il XIX secolo. E giochi di questo tipo non ce ne son pochi.

In Cina già nel IX secolo a. C. era diffuso lo tsu-chu, i cui caratteri  (蹴鞠) significano inequivocabilmente “calciare la palla”, Il gioco consisteva nel gettare tra due canne di bambù una palla di cuoio piena di capelli femminili. Il passatempo era riservato alle classi più agiate, ma non escludeva le donne. Nello stesso periodo in Giappone ci si dilettava col kemari, un gioco non competitivo in cui partecipanti in kimono provavano a tenere in volo una palla usando piedi, testa, ginocchia, schiena e gomiti, ma non le mani.[1] La cosa interessante è che le due grandi potenze dell’Estremo Oriente ebbero contatti per così dire calcistici, come attesta uno scritto di Li Ju, databile intorno al 50 a.C., conservato nel Museo etnologico di Monaco.[2]

Antico greco si allena, rilievo conservato al Museo nazionale di Atene

Antico greco che si allena, rilievo conservato al Museo nazionale di Atene

Volgendo lo sguardo a Occidente e all’antica Grecia troviamo vari giochi tra cui l’episkyros, che nella città stato di Sparta andava per la maggiore. Le regole del gioco sono poco chiare, anche perché non sono molte le testimonianze a noi pervenute. Ad ogni modo, l’episkyros prevedeva due squadre che si affrontavano in un campo delimitato da linee di fondo e da una linea centrale. La palla colpita con mani o piedi doveva essere portata nella metà campo altrui e contemporaneamente la squadra avversaria doveva essere spinta oltre la linea di fondo. Dopo la conquista della Grecia il gioco si diffuse a Roma e nelle sue Province col nome di harpastum, (dal verbo greco αρπαζω, ‘afferrare’). Harpastum era anche il nome dato alla palla usata, una sfera piccola, dura e fatta di stracci. Il gioco, alla pari dell’episkyros e a differenza del tsu-chu, era contraddistinto da una notevole fisicità che a volte sfociava in vera e propria violenza. Questo spiega perché poeti come Marziale, Virgilio, Orazio e Ovidio se ne tenessero lontani e perché, al contrario, fosse molto amato dai legionari.

Non è chiaro se e in quale misura l’harpastum continuò ad essere praticato in Italia. In Età Moderna si scrisse che il calcio fiorentino era diretto discendente del gioco romano. Ma più che una osservazione frutto di indagini storiche, questa (come altre che sarebbero seguite) sembra una scelta fatta ad hoc.
Partiamo, infatti, dalle cose certe. Nel momento di massimo fulgore della Firenze medicea era diffusissimo il gioco del calcio. Esso prevedeva partite tra due squadre di circa trenta unità, il cui obiettivo era fare caccia, ovvero portare la palla (una sfera di cuoio leggera e gonfia di aria) al di là della linea avversaria. Per colpire la palla era lecito utilizzare mani e piedi e a chi difendeva era concesso quasi tutto per fermare gli avversari.
Tale pratica non era quasi sicuramente diffusa due secoli prima, altrimenti (assicurano gli storici) Dante ne avrebbe fatto cenno. Eppure ai Medici fece comodo ricondurre il calcio fiorentino all’harpastum nell’ottica di una generale impostazione ideologica basata sul richiamo alla classicità. Non a caso sono del Seicento i primi scritti che avvallano questa tesi e addirittura identificano i due giochi.[3]

antonio scaino da saloAnche sulla primogenitura fiorentina nella riscoperta dei giochi con la palla ci sono dubbi, visto che agli inizi del XIV secolo a Padova e nel Veneto era praticato un gioco del calcio, così chiamato perché un calcio da metà campo dava il via alla contesa.[4] Calcio, a cui seguiva la consueta “scaramuccia, talché è poi lecito sì all’una come all’altra parte pigliar la palla, batterla e cacciarla verso il segno degli avversari”. La descrizione fatta da Antonio Scaino da Salò nel Trattato del giuoco della palla (1555) ci restituisce l’immagine del solito gioco caotico senza un chiaro nome e un preciso pedigree, ma ci permette di registrare il primo scritto in cui le regole di un gioco con la palla venivano spiegate. Il celebre regolamento in 33 “capitoli” di Giovanni de’ Bardi relativo al calcio fiorentino sarebbe seguito di lì a poco.

Registriamo così un importante passo dovuto alla tradizione delle croniche, che a partire dal Basso Medio Evo aveva aperto al ceto medio la possibilità di raccontarsi e di raccontare nella propria lingua gli aspetti della vita di tutti i giorni.
Ma se le prime descrizioni del gioco erano frutto di osservazione, la nascita dello sport vero e proprio sarebbe stata frutto della necessità di una codifica e conseguenza del nuovo ruolo occupato all’interno della società dai suoi praticanti.

federico

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[1] La pratica del kemari non si è mai veramente interrotta. Gare di kemari sono ancora disputate nei templi shintoisti in occasione di particolari festività. Lo tsu-chu ha invece conosciuto il periodo di maggior fulgore sotto la dinastia Ming e poi è caduto in disuso. Oggi se ne disputano match dimostrativi.
[2]  cfr. Ghirelli, Storia del calcio italiano, Einaudi, 1954
[3]  cfr. Giorgio Coresio, Descrizione in versi Greci del Calcio, 1611, e la definizione di calcio presente sul vocabolario dell’Accademia della Crusca e datata 1612: “È calcio anche nome di gioco, proprio e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata con una palla a vento, somigliante alla sferomachia, passata dai Greci ai Latini e dai Latini a noi.”
[4]  “… dal qual rito d’incominciar questo gioco col calcio del piede, forse è stato nominato Giuoco del calcio” (A. Scaino da Salò, Trattato del giuoco della palla, 1555, Padova)