Personaggi in cerca d’autore. 31° puntata: Raoul Diagne
Les peuples d’Amérique, d’Afrique, d’Asie et d’autres contrées
lointaines semblent n’attendre que d’être civilisés
Nicolas de Condorcet
L’assimilazione passa per essere stato uno dei principi fondanti della politica coloniale francese. L’idea alla base era quella di rendere gli abitanti delle colonie dei veri citoyens, mostrando loro il beneficio di assorbire la cultura, rispettare le leggi e uniformarsi alle istituzioni della madrepatria.
A dire il vero, tale politica non fu perseguita dai francesi ovunque con la stessa solerzia. In Africa, ad esempio, l’elenco dei territori assimilati si ferma ai cosiddetti “quattro comuni del Senegal”, ovvero Saint Louis, Gorée, Rufisque e Dakar. Ma la cosa più interessante per chi, come noi, non perde mai d’occhio il terreno verde è che dietro il primo giocatore di colore a vestire la maglia dei Bleus c’è una storia di assimilazione… “al quadrato” che ebbe origine proprio in quel lembo dell’Africa Occidentale Francese.
Scrive, anche un po’ sarcasticamente, Oludare Idowu nel 1969 che «nel Senegal del XIX secolo i mulatti furono il gruppo maggiormente assimilato dal punto di vista culturale. Il modo di vita a cui si ispiravano era francese. Molti di loro guardavano a se stessi come français e alla Francia come patria.».
Del resto, a pochi anni di distanza dalla fondazione sulla foce del fiume Senegal della città di Saint Louis (1659) e dalla cacciata degli olandesi dall’isola di Gorée (1677), non erano infrequenti unioni tra donne del posto e mercanti o semplici impiegati che per motivi di lavoro passavano lunghi periodi nelle due città senegalesi. Queste unioni determinarono la nascita di una nuova fascia di popolazione, quella dei mulatti, che crebbe molto in numero all’indomani della rivoluzione giacobina, perché molti francesi scappati dalla madrepatria si sistemarono sulle coste senegalesi.
Le grandi riforme che si susseguirono nel corso del XIX secolo e permisero prima agli abitanti di Saint Louis e Gorée e, poi, a quelli degli altri due dei quattro comuni, Rufisque e Dakar, di divenire di fatto autonomi nell’amministrazione del loro territorio, avevano come obiettivo non secondario quello di sfruttare le potenzialità che venivano offerte al governo di Parigi dai mulatti: la presenza di un gruppo di non bianchi che però pensavano come francesi e aspiravano a divenir tali.
Il primo protagonista della nostra storia, Blaise Diagne, non era mulatto, era senegalese al 100%. Eppure si inserì perfettamente all’interno di queste dinamiche assimilazioniste. Nato a Gorée nel 1872, neanche a farlo apposta l’anno in cui la città isolana divenne a tutti gli effetti un comune della Francia, andò a studiare prima a Saint Louis e poi ricevette una borsa di studio per recarsi in Provenza, ad Aix. A diciannove anni vinse un concorso per entrare nella Dogana e poté così negli anni successivi recarsi, in qualità di funzionario, nelle varie colonie sparse per l’Africa e il Sud America. Per non farsi mancare nulla divenne anche un frammassone e così, quando nel 1914, arrivò il momento delle elezioni decise di candidarsi.
Dal giugno del 1885, infatti, una legge reale sanciva in maniera definitiva che uno dei dieci deputati riservati alle colonie dal Parlamento francese fosse espressione del territorio dei quattro comuni. Nessun nero fino a quel momento era riuscito nell’impresa di farsi eleggere,[1] Blaise ci riuscì sottoscrivendo con Parigi un patto: gli abitanti dei quattro comuni non avrebbero avuto restrizioni nell’ottenere la cittadinanza francese e, in cambio, il governo avrebbe avuto nel proprio esercito tanti uomini in più da mandare a combattere nella Grande Guerra che stava per dilaniare il vecchio continente.
Non era la prima volta che venivano assoldati i tirailleurs sénégalais. Anzi, in fondo il Senegal godeva di alcuni benefici all’interno dell’Africa Occidentale Francese perché i suoi tiratori erano stati partner militari della madrepatria nell’espansione dalle coste dell’Oceano Atlantico verso Costa d’Avorio, Togo e Dahomey e persino nella conquista del Madagascar. Però, mai prima del 1914 questo corpo militare costituito da africani di pelle scura era stato chiamato a combattere in Europa.
Si trasferì in Francia, ovviamente a Parigi, anche Blaise Diagne, che -tra parentesi- avrebbe visto rinnovato il suo mandato di rappresentante della colonia numerose volte, sarebbe diventato ministro nel gennaio 1931 e da deputato ancora in carica sarebbe morto nel 1934. E proprio a Parigi costruì la sua carriera calcistica il secondo protagonista della nostra storia, Raoul Diagne, figlio di Blaise e della francese della “métropole” Marie Odette Villain.
Paul Dietschy e Jean-Claude Kemo-Keimbou, in L’Afrique et la planète football, fanno capire quale ruolo possano rivestire lo sport e l’educazione fisica in un’ottica assimilazionista: il progetto coloniale mira a costruire un uomo nuovo, a immagine e somiglianza del colonizzatore, è una vera e propria missione civilizzatrice in cui va inserita anche l’educazione corporale.
Ora, a parte i già citati distinguo che spingono a muoversi con circospezione quando si cerca di individuare geograficamente, temporalmente e “cromaticamente” i possibili destinatari di questo progetto, va però notato che, mentre una ginnastica «a forte tonalità militare» si insegnava nelle scuole dell’Africa Occidentale Francese e non c’è bisogno di spiegare il perché, il pallone era arrivato in Senegal verso la fine del XIX secolo «a esclusivo diletto» dei colonizzatori e solo negli anni Venti del XX secolo si sarebbe registrato l’avvicinamento al gioco anche da parte dei colonizzati.
Premessa doverosa per capire perché, a differenza del suo compagno di Nazionale di origine marocchina Larbi Ben Barek, il mulatto Raoul Diagne, nato nel 1910 in Guyana e trasferitosi a Parigi in tenera età, va considerato un prodotto del football francese.[2]
Questo non significa che la narrazione di Diagne fatta dai giornalisti del tempo fosse scevra di tanti cliché che ben conosciamo: le sue infinite gambe «sembrano di caucciù e si allungano, per così dire, a volontà», è «sorprendentemente flessibile» e questa è la sua «qualità primordiale», è «solido come una roccia», è un difensore efficace anche se «talvolta manca di precisione all’interno della distribuzione del gioco». Così scriveva Mario Brun su Match nel novembre 1935.
D’altra parte, guardando una foto comparsa tre anni prima sullo stesso giornale viene il sospetto che Raoul fosse solito assumere alcuni atteggiamenti che rimarcavano la sua origine senegalese e, al contempo, rimandavano all’idea che i francesi avevano del selvaggio. Lo scatto in questione mostra, infatti, il giocatore vestito di tutto punto posare accanto al suo ghepardo al guinzaglio, vezzo che, a detta dell’autore dell’articolo annesso -anche in questo caso Brun-, accomunava l’astro nascente del calcio francese all’icona coloured del momento, la cantante afroamericana Josephine Baker.[3]
Ghepardi e caucciù a parte, la carriera di Raoul Diagne merita di essere ricordata e non solo perché, a soli 21 anni, il 15 febbraio 1931 in una Francia-Cecoslovacchia 1-2 il figlio del primo uomo di colore a diventare deputato e poi ministro in Francia divenne il primo giocatore di colore a indossare la maglia dei Bleus.
Nonostante gli ottimi risultati ottenuti nel salto in alto, disciplina in cui nel 1929 si laureò campione studentesco con la misura di 1.89m, a soli sei centimetri dal record nazionale, la “palla rotonda” fu per Raoul l’unica vera passione sportiva. Nel 1926 cominciò a giocare per il Racing Club de France, nel 1930 esordì in prima squadra, nel 1932 passò al Racing Club de Paris, squadra con la quale vinse tre Coppe di Francia (1936, 1939 e 1940) e un campionato (1936). Tra il 1933 e il 1940 disputò altre 17 partite con la Nazionale e fu titolare nel match vinto contro il Belgio e in quello perso contro l’Italia ai Mondiali francesi del 1938.
Difensore di ruolo, schierato a volte come centrocampista, Raoul Diagne tra il 1932/33 e il 1938/39 con la maglia del Racing riuscì anche a segnare sette gol in campionato, ma l’impresa che lo fece balzare agli onori della cronaca e che contribuì molto alla sua popolarità la realizzò a inizio carriera, da portiere. Nel novembre 1932, infatti, il titolare André Tassin si infortunò nel corso di una partita del campionato di Parigi contro il Club Français. Diagne, allora, prese il suo posto e, come scrisse Le matin, «senza mostrar turbamento, gettandosi sull’erba umida, saltando, distendendo le braccia e allungando le gambe» riuscì a difendere l’1-0. Anche la prestazione fornita contro l’Arsenal, in occasione dell’annuale amichevole di beneficenza a favore degli invalidi di guerra, fu così convincente che il ct scozzese Jimmy Hogan per tutta la stagione rimase in dubbio se spostarlo in porta o meno. Poi Hogan andò via e Raoul tornò a giocare in difesa.
C’è, però, un altro momento chiave della vita sportiva -e non solo- di Diagne datato anch’esso 1932. Una decisione nascosta in quello strano cambio di squadra cui abbiamo già accennato. Nel settembre di quell’anno, infatti, partì la Division Nationale, frutto della svolta verso il professionismo caldeggiata, tra gli altri, anche dal futuro padre della Coppa dei Campioni Gabriel Hanot. Il Racing Club, polisportiva a vocazione amatoriale, rifiutò di iscriversi al nascente campionato e allora la sua costola calcistica si staccò, dando vita a un club con stessa denominazione ma indicazione topografica diversa, “de Paris” invece che “de France”.
Raoul non esitò ad abbracciare la strada del professionismo, con buona pace di chi, come il padre Blaise, non guardava allo sport come vero lavoro e non giudicava etico che il calcio fosse una fonte di guadagno. Ma ciascun periodo offre i suoi modi per essere assimilati e non si può certo dire che il piccolo Diagne abbia sbagliato a scegliere.
Aujourd’hui, Diagne connaît la faveur des foules. Il a su la conquérir par sa manière pittoresque, et la simplicité, naturel avec lesquels il réussit les interventions les plus inattendues. […] Dans la lutte, il garde un calme olympien. Point de gestes extravagants, ni de courses folles. Tout ce qu’il entreprend, il ans effort apparent, presque avec nonchalance. Et le stade est médusé.
da Match, 19/11/1935.
federico
Fonti:
H. Oludare Idowu, Assimilation in 19th Century Senegal, Cahiers d’études africaines
www.worldhistory.biz, -Colonial Period-Administration and “Assimilation”
P.Dietschy, J.-C.Kemo-Keimbou, L’Afrique et la planète football, EPA Editions, 2010
il portale http://gallica.bnf.fr, per le edizioni di Match
www.sofoot.com, Raoul Diagne, l’homme à tout faire du Racing
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[1] Il “meno bianco” a vincere un’elezione era stato il nobile mulatto Barthélémy Durand Valantin, che nel 1848 ottenne il seggio all’Assemblea Costituente che la Seconda Repubblica aveva concesso a Saint Louis e Gorée
[2] Nell’intervista comparsa su Match del 29/11/1932 si legge:
– C’est au Sénégal que vous avez connu le sport?
– Mais non, voyons. Je suis venu en France à l’âge de dix-huit mois. C’est à Janson-de-Sailly que le sport m’a été révélé
[3] Josephine era anche uno dei soprannomi con cui Diagne veniva chiamato dai propri tifosi. Non crediamo per la moda del ghepardo che li accomunava, ma per semplice analogia: in fondo la Baker era la persona di colore di maggior successo al momento in cui Diagne cominciò ad affermarsi