Il momento in cui Didier Drogba, festeggiando la prima storica qualificazione della Costa d’Avorio a un Mondiale, ha supplicato il popolo ivoriano di stringersi attorno alla propria nazionale, di abbandonare le divisioni, di “deporre le armi e organizzare libere elezioni”, è stato meraviglioso. A maggior ragione perché il suo appello, pronunciato in ginocchio insieme ai compagni di squadra, è sembrato davvero rappresentare, in quel momento, una concreta svolta nella delicatissima situazione e ha infuso un sentimento di speranza legittimo e diffuso. Era l’8 ottobre 2005 e il clamore mediatico suscitato, unito all’amore del popolo ivoriano verso Les Éléphants e verso il giocatore più rappresentativo, è stato in effetti un importante passo verso il tentativo di trattare una pace tra 2006 e 2007. Poi, come spesso accade quando le cose sembrano troppo belle per essere vere, purtroppo è sopraggiunta la realtà. La Nazionale di calcio al Mondiale tedesco è finita in un insormontabile girone eliminatorio, ha lottato contro Argentina e Olanda, ma ha rimediato due sconfitte di misura per 2-1 che hanno reso inutile la vittoria in rimonta contro la Serbia e Montenegro.
All’interno del Paese, invece, le complicazioni sono state ben più gravi: dall’impossibilità immediata di organizzare le elezioni a causa delle distruzioni e dei massacri avvenuti durante gli anni precedenti (si è persino reso necessario un altro censimento per individuare il potenziale elettorato), fino ad arrivare alla ripresa del conflitto, destinato a diventare ancora più cruento.
La guerra civile temporaneamente fermata dopo l’appello di Drogba e compagni, era iniziata nella notte tra il 18 e il 19 settembre del 2002, quando dei misteriosi aggressori [1] erano penetrati in Costa d’Avorio da Burkina Faso, Liberia e altri Stati confinanti e avevano occupato brutalmente Bouaké, la città più grande del nord del Paese, sfruttando le divisioni sociali tra le varie etnie e quelle religiose tra cristiani e musulmani. Erano male attrezzati e avevano poche munizioni, ma del resto erano convinti che il conflitto non sarebbe durato più di cinque giorni; previsione sbagliata, perché l’esercito regolare e la gendarmerie, pur colti di sorpresa, non solo avevano retto l’impatto, ma stavano anche per avere la meglio. Improvvisamente, però, interveniva la Francia, chiedendo e ottenendo quarantotto ore di tregua per permettere l’evacuazione dei cittadini francesi e statunitensi. Più che legittimo, ci mancherebbe, ma la cosa strana è che in quei due giorni nei cieli ivoriani non si vedevano solo aerei che riportavano a casa i cittadini stranieri, ma se ne vedevano anche altri – sempre francesi – che, come si sarebbe scoperto in seguito, erano carichi di armi e di attrezzature militari sofisticate destinate ai “ribelli”. Ma perché? Perché questa soldataglia era entrata in Costa d’Avorio e soprattutto perché era stata aiutata dalla Francia?
Bisogna andare ancora più indietro, al 1999, quando dopo decenni di dittatura “illuminata” di Félix Houphouët-Boigny [2] e dei suoi successori Bédié e Guéï, nella ex perla delle colonie francesi si verificò un colpo di Stato – peraltro approvato dalla comunità internazionale – all’insegna di una nuova Costituzione, non certo paragonabile a quelle in vigore nelle democrazie occidentali, ma che comunque apriva le porte al multipartitismo e istituiva libere elezioni per il 2000. Dalle urne usciva il nome di Laurent Gbagbo, premiato dall’elettorato grazie a un programma politico ed economico ispirato ai crismi del partito socialista francese, con cui era entrato in contatto durante il suo esilio negli anni ‘80. Il fatto è che il neopresidente, pur con metodi anch’essi autoritari, aveva, tra le altre cose, intenzione di tagliare il filo che legava la Costa d’Avorio alla Francia, o meglio di porre fine al monopolio in mano agli ex coloni e dare la possibilità anche ad altri Paesi di investire sulle enormi risorse naturali ivoriane. Da qui una campagna contro le ingerenze di Parigi e in nome della “ivorianità”, che aveva fatto colpo sull’elettorato e ora rischiava di intaccare affari da cifre a nove zeri. Giusto per fare un esempio, dalla Costa d’Avorio proviene il 42% del cacao del mondo, e questo cacao è controllato per gran parte da aziende francesi. Sta di fatto che dopo aver armato i ribelli del nord nel 2002, i soldati francesi ottenevano, il 4 febbraio del 2003, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che affidava loro l’incarico per il mantenimento della pace. Questo “ironico” mandato, scaduto nel luglio dello stesso anno, sarebbe stato sempre regolarmente rinnovato, permettendo alla Francia una presenza costante nel territorio ivoriano non solo con le sue aziende, ma anche con l’esercito. D’altronde Jacques Chirac ha sempre sostenuto che “l’Africa non è ancora matura per la democrazia”.
Dopo lo stop delle ostilità arrivato, come detto, nel 2007, gli ivoriani riescono a recarsi di nuovo alle urne per eleggere il nuovo presidente solo il 31 ottobre del 2010. Nel frattempo la Nazionale, pur avendo un potenziale enorme a livello di nomi, è riuscita solo a ottenere piazzamenti, ma mai a vincere la Coppa d’Africa (secondo posto nel 2006 e semifinalista nel 2008, sempre sconfitta dall’Egitto) e al Mondiale 2010, il primo in Africa, è incappata nuovamente in un girone di ferro con Brasile e Portogallo e, ovviamente, non è andata oltre nonostante la vittoria contro la Corea del Nord. Un senso di incompletezza e di impotenza che si riflette anche in quello che succede in campo politico.
Uno dei due candidati forti è il presidente eletto nel 2000. Gbagbo, che durante l’attacco del settembre del 2002 si trovava a Roma, aveva infatti accettato nel settembre 2003 un accordo siglato a Linas-Marcoussis, vicino Parigi, e aveva affidato ai rappresentati dei ribelli importanti ruoli nel governo. In cambio l’ONU nel 2005 gli aveva consentito di restare in carica per gestire gli affari di Stato finché non fosse stato possibile organizzare nuove libere elezioni.
L’avversario di Gbagbo è Alassane Ouattara, già vice direttore del Fondo Monetario Internazionale e Primo Ministro ivoriano negli anni ’90, strenuo difensore degli interessi economici francesi in Costa d’Avorio [3]. Svoltesi sotto l’egida di una commissione ONU, le elezioni premiano proprio Ouattara, anche se di misura, al ballottaggio del 28 novembre. Gbagbo, però, non accetta il risultato e accusa l’avversario di brogli e di intimidazioni, divulgando anche delle prove tramite la televisione pubblica, ancora sotto il suo controllo.
A legittimare le posizioni sostenute da Gbagbo, “presidente abusivo” autoproclamatosi il 4 dicembre 2010, interviene la Corte Costituzionale, annullando i risultati in tre regioni del nord. Certo, i membri di quell’organo sono fedelissimi di Gbagbo, e la loro decisione va, quindi, presa con le pinze, ma i brogli sono documentati e consultabili (molte, ad esempio, le schede già votate che hanno fatto figurare, in alcuni seggi, più voti per Ouattara che elettori aventi diritto).
Questa situazione a dir poco caotica, intanto, fa ricominciare le ostilità tra i due schieramenti, con massacri perpetrati da entrambe le parti, tra cui fanno particolarmente scalpore quelli messi in atto dalla polizia contro i manifestanti pro-Ouattara. Le vittime sono centinaia, e decine di migliaia sono gli ivoriani che si vanno a rifugiare negli Stati confinanti creando un’ulteriore emergenza umanitaria.
A questo punto, indovinate un po’ chi interviene a difendere la legittimità dell’elezione di Ouattara? La Francia, bien sûr. Già, perché se per Chirac l’Africa non è ancora matura per la democrazia, è all’insegna della difesa della democrazia che il suo successore all’Eliseo, Nicolas Sarkozy, si schiera pubblicamente contro le rivendicazioni di Gbagbo, e ottiene di nuovo l’autorizzazione dell’ONU a usare la forza in territorio ivoriano, con il sostegno anche mediatico di Obama, di Ban Ki-Moon e dell’Unione Europea. L’esercito francese si fa largo con le bombe, incaricato di distruggere le armi pesanti, colpendo di fatto solo le forze di Gbagbo per permettere che la situazione si stabilizzi e che il presidente “legittimo” possa governare in pace. Questa ennesima impennata delle violenze, che si inserisce in una guerra civile che dal 2002 non si era mai del tutto fermata, culmina con l’arresto di Gbagbo datato 10 aprile 2011, quando le forze speciali francesi “La Licorne” lo trasferiscono insieme alla famiglia nel quartier generale di Ouattara, per poi essere spostato a L’Aja, dove è in attesa di essere giudicato per crimini contro l’umanità dal Tribunale Penale Internazionale. Non di certo un santo, l’ex presidente Gbagbo, ma stiamo parlando della defenestrazione avallata e addirittura messa in pratica da un Paese straniero, per giunta ex colonizzatore, di un politico che probabilmente le elezioni le aveva vinte.
Come quella di Drogba, che all’età di cinque anni è salito su un aereo verso Bordeaux con la sua famiglia, la storia della Costa d’Avorio è, quindi, legata a doppio filo con la Francia; una cosa che avviene, del resto, in un’ampia parte dell’Africa. I vari inquilini dell’Eliseo, da De Gaulle in poi, sono rimasti aggrappati alle ricchezze naturali delle ex colonie tramite accordi economici unilaterali privilegiati che spesso hanno rischiato di saltare, ma che l’esercito è sempre accorso a difendere; basti pensare che gli interventi militari francesi in Africa, dal 1960 in poi, ammontano a circa cinquanta, operazioni neo-colonialiste a orologeria servite ad appoggiare ribellioni, evitare colpi di Stato e quant’altro, sempre autorizzati dalla comunità internazionale, anche se forse mai, come in Costa d’Avorio, esplicitamente incaricati dall’ONU. Come ha scritto Libération il 5 aprile del 2011, anche se le ragioni umanitarie erano gravi e reali, «gli oppositori saranno sempre colpevoli agli occhi della popolazione di essere arrivati al potere sulle camionette di un esercito straniero».
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[1] Si sono poi rivelati due gruppi armati di etnie Krahn e Gio, tribù reduci dalle guerre civili in Liberia e Sierra Leone, famosi per le mutilazioni subìte dalle proprie vittime.
[2] In carica dal 1960 al 1993, fautore della cosiddetta Françafrique post-coloniale e terzo presidente più longevo di sempre dopo Fidel Castro e Kim Il-Sung.
[3] Ouattara ha concesso tra le altre cose a France-Telecom il monopolio delle telecomunicazioni, alla Bouygues il monopolio delle risorse idriche e dell’energia idroelettrica, e soprattutto alla Barry-Collebaut la gestione di gran parte del cacao.