Gli azzurri campioni del mondo per due volte consecutive, nel 1934 e nel 1938, rappresentano forse l’apice del calcio italiano che in quegli anni iniziava ad acquisire i suoi tratti tipici. Tuttavia la Nazionale di Vittorio Pozzo ha sì vinto sul campo praticando un gioco innovativo per l’epoca, ma è stata anche – volente o nolente – una grande arma di propaganda per il regime fascista,[1] alle cui grinfie non è sfuggito nemmeno il calcio. I deliri nazionalistici e isolazionisti si sono propagati anche in questo ambito, ma le due Coppe Rimet in questione probabilmente non sarebbero state alzate senza l’apporto di calciatori e allenatori stranieri che hanno a dir poco contaminato – se non forgiato – lo stile italiano di giocare a football.
PALLONE E MOSCHETTO. Al termine della prima guerra mondiale, il calcio in Italia visse un boom di popolarità grazie al quale in poco tempo divenne sport nazionale, coinvolgendo un gran numero di persone tra praticanti o semplici appassionati. Gustave Le Bon scrisse a fine Ottocento che le passioni collettive potevano essere manipolate a scopi politici e Mussolini, che era un suo lettore, pur non essendo per nulla interessato al calcio, decise insieme ai suoi fedelissimi che una potenziale fonte di influenza sulle masse non doveva sfuggire al regime.[2] Oltretutto, come nota Simon Martin nel suo saggio “Calcio e fascismo”, «il calcio è il più naturale campo di battaglia metaforico in cui atti di eroismo individuale venivano compiuti a beneficio del collettivo», concetto che si sposa alla perfezione con uno dei cardini della propaganda fascista, cioè l’interesse generale che conta più delle esigenze del singolo. Infine, vista la diffusione del ruolo dell’allenatore, il football aveva ormai in sé anche il dogma dell’autorità assoluta di un capo, concetto sul quale non è necessario aggiungere altro.
Il calcio italiano divenne formalmente “fascista” il 2 agosto 1926, quando fu emanata la Carta di Viareggio. Questo provvedimento rappresentò la storica svolta verso il professionismo e riorganizzò tutto l’organigramma della FIGC, creando tra le altre cose un’unica competizione nazionale[3] e “legalizzando”, regolamentandolo, il calciomercato. Al di là delle componenti logistiche e organizzative, quello che interessa a noi in questa sede è che la Carta di Viareggio vietò alle squadre di club di ingaggiare calciatori stranieri, coerentemente con l’isolazionismo che poi nove anni più tardi sfociò nel teatrino dell’autarchia. Transitoriamente permetteva di mantenere due giocatori non italiani per la stagione successiva (a patto che ne fosse schierato in campo soltanto uno), mentre il divieto tassativo sarebbe entrato in vigore dal 1928 in poi. Di conseguenza decine di magiari e austriaci tornarono nei loro Paesi d’origine: ma cosa ci facevano in Italia?
IL DANUBIO. Facciamo un passo indietro. Si sa, il football è nato in Inghilterra e un po’ per motivazioni reali e un po’ per snobismo i connazionali dei primi calciatori sono stati i padroni assoluti e inarrivabili per almeno un cinquantennio, tanto da non disputare la prima Coppa Internazionale (gli Europei ante-litteram) per manifesta superiorità. Nell’Europa continentale dei primi decenni del Novecento però regnavano i danubiani, nonostante il Trattato di Versailles abbia avuto conseguenze anche a livello sportivo: nel 1919 le neonate repubbliche di Germania, Austria e Ungheria furono escluse dalle Olimpiadi e si tentò di bandirle anche dalla FIFA. Ciò non impedì ai club di questi Paesi di giocare all’estero e una tournée toccò anche l’Italia nel 1921: tutte vittorie tranne una, per mano di una rappresentativa di Casale e Alessandria fuse insieme contro la Wiener Amateur. Josef Banas, allenatore ungherese ma anche giocatore di Cremonese, Milan, Venezia e Padova, definì ironicamente il calcio italiano dell’epoca «poco tecnico, con molto brio»: traducendo, era basato solo su foga agonistica e impeto, caratteristiche per nulla sufficienti a impensierire l’organizzatissimo ed elegantissimo gioco mitteleuropeo la cui apoteosi fu il Wunderteam austriaco di Meisl e Sindelar. Sta di fatto che tra 1920 e 1926 in Italia sbarcarono circa 80 giocatori danubiani e più della metà delle squadre di club erano allenate da austriaci o ungheresi, i quali introdussero non solo gli insegnamenti tecnici – i fondamentali, come si diceva una volta – ma anche la già citata obbedienza all’allenatore [4].
IL RIO DE LA PLATA. Intanto il football aveva fatto la sua apparizione anche in America Latina e vi era anche esploso, acquisendo fin da subito la connotazione tutta sudamericana dello sport come festa, non come prova di coraggio, sopportazione del dolore e abnegazione. Il Genoa nel 1923 andò a giocare qualche partita in Uruguay e in Argentina; Renzo de Vecchi, terzino dei grifoni e della Nazionale, descrisse così il neonato movimento calcistico che ebbe modo di vedere:
«È un po’ come un fenomeno di generazione spontanea. Nel senso che veri e propri istruttori non ne hanno. Si può dire che giocano tutti al football laggiù. Specialmente a Buenos Aires si contano decine di campi da gioco, vastissimi e regolamentari. È così che tutti i giovinetti acquistano senza sforzi quella sicurezza nel controllare il pallone che è la base per fare un buon calciatore. L’elemento giocatore è reclutato senza eccezione nel popolo minuto. La borghesia danarosa vive un po’ appartata, quasi chiusa nel suo guscio, con abitudini e divertimenti nettamente staccati da quelli dei meno abbienti.»
Se è ben noto il movimento di migranti italiani verso l’America Latina a cavallo tra XIX e XX secolo, è tuttavia meno noto il ritorno di tanti figli e nipoti di tanti nostri connazionali. In base alla legge sulla cittadinanza in vigore all’epoca, era considerato cittadino italiano chiunque avesse “sangue italiano”, anche se nato all’estero. Va da sé che per aggirare la Carta di Viareggio i club iniziarono a pescare in America Latina e tra le due guerre arrivò in Italia un gran numero di calciatori sudamericani tra argentini, brasiliani e uruguaiani. Julio Libonatti, Rosario e Arturo Chini, Pedro Petrone, Renato Cesarini, ma soprattutto Raimondo Orsi e Luis Monti [5] (entrambi ingaggiati dalla Juventus ed entrambi protagonisti dei due mondiali vinti negli anni ’30), giusto per citarne alcuni. I cognomi parlano da soli. Questi figli di migranti non solo conservavano i dialetti e le memorie dei loro genitori, ma il loro ritorno si intrecciava con l’ideologia fascista della “più grande Italia”. Nacque così, anche a causa loro, la figura propagandistica del “rimpatriato”, non italiano di nascita ma portatore di valori italiani e quindi anche rappresentante di quella “razza latina” che il fascismo tentava di inculcare al popolo prima di innamorarsi di quella ariana [6].
STILE NAZIONALE?. La nascita di un vero e proprio stile italiano di giocare a calcio, all’inizio degli anni ’30, era quindi percepita più all’estero che all’interno dei confini nazionali. Gabriel Hanot, calciatore poi divenuto giornalista dell’Equipe, sosteneva che il calcio italiano era più moderno di quello argentino o danubiano, perché tramite difesa rocciosa, contropiedi e lanci lunghi riusciva a sorprendere tutti gli avversari (tranne gli inglesi, ovviamente). In Italia, però, le impressioni degli addetti ai lavori erano ben diverse e la verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Annibale Frossi, esterno destro famoso perché giocava con gli occhiali sorretti da un elastico, riassume tutto così:
«Una scuola italiana dal punto di vista tecnico non è mai esistita. Piuttosto il nostro calcio è nato provinciale, ossia senza esprimere una tecnica propria si è affidato in seguito ai contatto con il calcio danubiano. Non ha rinunciato per anni alle sue caratteristiche fino a tanto che non sono reimmigrati nella patria del padre e della madre assi quali Scarone, Frione, Orsi, Cesarini, Scodelli, De Maria, Fedullo, Sansone, Andreollo, Puricelli e tanti altri. Da quel momento ha adattato la tecnica dei sudamericani al suo temperamento – in modo da valorizzare quello e quella – e ha avuto un lungo periodo di dominio europeo che resta ancora la pagina più gloriosa del libro d’oro della nostra nazionale.»
Tecnica danubiana e temperamento latino, in buona sostanza.
Quando nel 1935 l’Italia subì una serie di (blande) sanzioni economiche da parte della Società delle Nazioni a causa dell’invasione dell’Abissinia, il regime fascista rispose con l’autarchia: come spesso è avvenuto e tutt’ora avviene in Italia, tra la teoria e la pratica si è messa prepotentemente in mezzo la propaganda politica, quindi di fatto la suddetta autarchia fu più simbolica che altro, una sorta di primordiale sbandieramento del made in Italy ancora senza odiare i cinesi. Il concetto comunque in qualche modo attecchì e si iniziò a usare l’espressione “roba di prima” (cronologicamente parlando) per indicare la merce di qualità. Per fortuna, parlando di calcio, era un concetto che non stava in piedi.
daniele
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[1] I sospetti sulla regolarità di alcune partite del primo mondiale vinto ci sono e sono legittimi
[2] Non a caso proprio negli anni ’20 si fece largo il concetto di tifo inteso come passione sportiva: per la contagiosità e per l’offuscamento delle menti venne associato all’omonima malattia.
[3] Prima si giocavano un campionato del Nord, disputato dalle società più importanti, e uno del Centro-Sud molto meno prestigioso. Lo scudetto veniva assegnato tramite una finale tra le vincitrici delle due rispettive competizioni ma di fatto non era mai sceso sotto al Po.
[4] Il ruolo dell’allenatore era peraltro relativamente nuovo in Italia, soprattutto a livello di rappresentativa nazionale: a parte in occasione delle Olimpiadi del 1912, prima apparizione di Vittorio Pozzo sulla panchina azzurra (esperienza infelice, squadra eliminata dalla Svezia al primo turno e conseguenti dimissioni del commissario tecnico), i calciatori sono stati per diversi anni selezionati da una commissione formata da ex capitani e arbitri, come da tradizione britannica, che selezionava inoltre un capitano che avrebbe guidato i compagni in campo.
[5] Scrive Erik Brouwer che in realtà «Monti era un caso a parte. Durante il campionato del Mondo del 1930 nel vicino Uruguay aveva condotto l’Argentina in finale. Il paese chiedeva a gran voce una vittoria, ma poco prima della finale il campione ricevette una lettera in cui ignoti minacciavano di uccidere sua madre nel caso di vittoria dell’Argentina. Monti fallì e l’ex idolo fu preso a pietrate per le strade di Buenos Aires. Fuggì in Italia, dovette cambiare il suo nome in Luigi ed entrò in contatto con Mussolini, anch’egli molto convinto dell’efficacia delle minacce.» da “Palla prigioniera: il calcio dei dittatori”, Limes QS 2/05.
[6] Anche perché molti di questi calciatori tornarono saggiamente in Sudamerica quando l’Italia invase l’Etiopia, venendo così accusati di tradimento. Tanto ormai piacevano i biondi.