Si sente dire spesso che in Serie A giocano tanti, troppi stranieri… che le singole società preferiscono far giocare loro piuttosto che i nostri giovani di talento… che questi, per trovar spazio, devono andare in B o all’estero… E poi si parla di rado delle esperienze fatte fuori dall’Italia anche solo da chi, a tempo debito, ha indossato la maglia azzurra dell’Under 21.
Se poi alla predilezione per le chiacchiere da bar e alla deriva razzista che sta attraversando lo stivale ci aggiungiamo l’idiosincrasia verso l’analisi dei dati, ecco spiegato perché un Troost-Ekong che “ruba” un posto a un onesto difensore italiano sarà sempre più di attualità del destino di un Giulio Donati in Bundesliga.
Eppure il flusso in entrata e quello in uscita sono due aspetti complementari del processo che in poco più di venti anni ha quasi del tutto annullato le frontiere tra i vari campionati, rendendo più agevole la circolazione dei giocatori nel mercato globale o, meglio, incanalando quelli ritenuti di talento verso i club o le leghe con maggiori possibilità economiche e, fatalmente, quelli con minori prospettive verso società o tornei con meno appeal e meno soldi, al di là della nazionalità riportata sul passaporto. Proprio questo è il presupposto da cui dobbiamo partire, ricordando, ahinoi, che non siamo più negli anni Novanta, ergo imporsi in Serie A non rappresenta più la massima aspirazione possibile per un calciatore non italiano e, al contempo, imporsi in club tipo Parma, Fiorentina o Lazio non può rappresentare il massimo traguardo per un italiano.
Il riferimento fatto poco fa all’attuale giocatore del Mainz non è stato casuale. Un po’ perché Donati e gli altri protagonisti della spedizione della Nazionale giovanile in Israele hanno adesso l’età giusta per tracciare un primo bilancio della loro carriera (tra i 26 e i 28 anni), un po’ perché quella manifestazione fu per loro un buon palcoscenico (l’Italia giocò bene, arrivò in finale e si arrese solo all’inarrivabile Spagna di Isco, Morata, Thiago Alcantara, De Gea e Koke), un po’ perché a essere attratti dalle loro prestazioni non furono solo club italiani, ci è parso che l’insieme degli azzurrini scelti da Devis Mangia per la fase finale degli Europei Under 21 del 2013 sia un campione statistico ristretto, ma allo stesso tempo significativo.
Partiamo dai numeri: a tutt’oggi, ben 14 sei 23 convocati -il 61% del totale- ha avuto almeno un’esperienza fuori dall’Italia.[1] Inghilterra, Francia, Germania e Spagna, ma anche Belgio, Grecia e persino Romania le mete di questi trasferimenti. Per adesso, nessuno di loro ha lasciato l’Europa per andare nella Major League o in Cina, anche se le carriere di azzurrini di infornate precedenti quali Pellé o Giovinco mostrano come questi campionati “nuovi” siano approdi più adatti man mano che ci si avvicina o si supera la soglia della trentina. In media, i protagonisti della fase finale degli Europei Under 21 del 2013 sono stati tesserati da squadre non italiane in due delle ultime otto stagioni[2]; il dato sale a 2,43 stagioni se consideriamo coloro che scesero in campo nella finale contro la Spagna e a 3,28 stagioni se ci restringiamo ai quattordici che all’estero ci sono poi andati davvero.
Non è, però, un caso che vesta da ben sette stagioni la maglia di uno dei più ricchi club europei colui che al tempo era considerato il più talentuoso del gruppo: Marco Verratti. Non è solo questione di quanto il Paris Saint-Germain nell’estate 2012 pagò al Pescara (per inciso, 12 milioni di euro), ma anche delle prospettive a lungo termine che il trasferimento portava con sé: una presenza stabile in Champions League con la possibilità di alzare un giorno la coppa, una cosa che in Italia in quel momento solo la Juventus avrebbe potuto dargli. Tutto, quindi, tranne che estero come soluzione di ripiego.
A distanza di anni possiamo dire che Verratti ha sfruttato l’opportunità offertagli visto che è titolare fisso nell’unidici della squadra più forte della Ligue 1. Il problema è, però, un altro. Nonostante l’indiscutibile bagaglio tecnico, l’ex del Pescara non si è dimostrato quel giocatore che fa la differenza nei momenti decisivi che da giovane si sperava diventasse, e soprattutto ha deluso con la maglia della Nazionale lì dove il suo apporto sarebbe stato più che necessario (vedi a Madrid contro la Spagna nel match di qualificazione al Mondiale 2018).
È andata decisamente peggio a un altro giocatore che già nel 2012/13, cioè al momento della fase finale in Israele, giocava fuori. Parliamo di Fabio Borini, all’epoca in forza al Liverpool, che tra reds e prestiti al Sunderland sarebbe arrivato a quota cinque stagioni, senza mai sfondare davvero in Premier League.
Una bocciatura altrettanto severa in calcio straniero l’ha ricevuta un’altra promessa di quella Under 21, Ciro Immobile. Per l’attaccante la prima opportunità di fare un salto di qualità arrivò nel 2014, dopo una bella stagione al Torino. Come per Verratti, anche qui il miglior offerente fu un grande club estero, il Borussia Dortmund, finalista di Champions League l’anno prima. Sarà stata la saudade, fatto sta che né a Dortmund, né a Siviglia nella prima parte della stagione successiva, Ciro avrebbe trovato la sua dimensione e sarebbe tornato a segnare solo in maglia Lazio.
Parabola simile, anche se tuttora in corso, quella di Nicola Sansone. Un 2015/16 strepitoso con il Sassuolo, impreziosito da una punizione che mise ko la Juventus, e il signor Mapei che ebbe 13 milioni di ragioni per venderlo al Villareal, squadra ambiziosa nonché semifinalista di Europa League in quella stessa annata 2015/16. Una buona prima stagione al servizio del sottomarino giallo, poi dal cambio allenatore Escribà-Calleja Nicola è stato utilizzato sempre meno.
Da Sansone a Manolo Gabbiadini il passo è breve, con la differenza che quest’ultimo dopo una serie di buone stagioni in “provincia” passò con scarso successo da Napoli prima di finire al Southampton, in Premier League, e lì dove Pellé aveva fatto bella mostra di sé non è ancora riuscito a lasciare il segno.
Come nei primi quattro percorsi sopra ricordati, anche nel caso di Donati e Caldirola la possibilità di giocare in un campionato estero di livello arrivò in un momento di ascesa per la propria carriera. Di proprietà dell’Inter, ma di fatto mandati in prestito in Serie B, la scelta dei due di lasciare l’Italia in direzione Bundesliga (Werder Brema per Donati, Bayer Leverkusen per Caldirola) arrivò all’indomani di un torneo in Israele giocato da titolari e fu probabilmente dettata dalla speranza di ripercorre le orme di Barzagli.[3]
Purtroppo, le cose sono andate diversamente. Donati fino alla stagione scorsa ha giocato abbastanza, Caldirola solo nei primi anni, poi per una serie di infortuni lo hanno dirottato al Werder Brema II, in 3° Liga. In compenso, l’Italia e la Nazionale sembrano averli dimenticati sin da subito.
Siamo a metà dell’opera di analisi, ma vi rassicuriamo subito: con gli altri sette ex Under 21 faremo prima. Tra loro, infatti, un solo giocatore dato in prestito tanti anni fuori (Davide Santon che l’Inter tenne tre anni e mezzo in Premier League al Newcastle) e per il resto solo esperienze fugaci e/o fuori dai campionati che contano davvero: Paloschi allo Swansea City allora allenato da Guidolin; Marrone allo Zulte-Waragem, in Belgio, le cui sirene hanno attratto anche Leali, reduce da un anno non troppo soddisfacente con l’Olympiacos; Bardi all’Espanyol per metà stagione nel 2015/16, senza tuttavia scende mai in campo in Liga; Fausto Rossi, che nel 2013/14 andò in Liga, Real Valladolid e Cordoba, poi tornò a giocare in Serie B e adesso è all’Universitatea Craiova, in Romania.
Insomma, il quadro che questa analisi, pur se sommariamente, delinea non è positivo: se molti degli azzurrini di Israele 2013 hanno avuto l’opportunità di misurare le proprie capacità in club europei di livello e non hanno sfondato, vuol dire che i campioni in quella intera generazione di giovani non abbondavano. Giusto per usare per usare un eufemismo. E si sa che dei campioni si può fare a meno solo quando si hanno alle spalle allenatore e federazione in grado di dare un’impronta… o un buon capro espiatorio. Ogni riferimento a Tavecchio, a Ventura, alla polemica sui troppi stranieri in Serie A e all’eliminazione dalla fase finale di Russia 2018 non è casuale, anche perché tra gli azzurri scesi in campo contro la Svezia gli ex Under 21 del biennio 2011-2013 erano cinque: Verratti, Immobile, Insigne, Florenzi e Gabbiadini.
In cauda venenum, dicevano i latini e proprio per evitare questo abbiamo lasciato per ultimo il quattordicesimo di quella infornata di azzurrini che ha fatto un’esperienza all’estero: Cristiano Biraghi. La stagione 2015/16 passata in Liga con il Granada è stata positiva per lui e ha segnato l’inizio di un qualcosa che, passando da Pescara e Firenze, lo ha portato fino in Nazionale, con tanto di gol evita-retrocessione segnato in Nations League contro la Polonia.
federico
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[1] Tra i nove rimasti sempre nel campionato italiano, Insigne e Florenzi sono gli unici che hanno sempre militato in top club
[2] Partiamo dalla stagione 2011/12 perché è il 2011-2013 il biennio di riferimento per l’Europeo Under 21 che celebrò la sua fase finale in Israele
[3] Nell’estate del 2008 si trasferì da Palermo al Wolfsburg per 14 milioni di euro. Vinse una Bundesliga, poi nell’inverno 2011 fu acquistato dalla Juventus per soli trecento mila euro