Puoi fermare lo sport, non la sua capacità di produrre narrazioni

L’ultimo evento live cui ho assistito è ormai datato sabato 14 marzo: la 10 km a inseguimento femminile che ha regalato a Dorothea Wierer la seconda coppa del mondo generale di biathlon. Una gara emozionante, con tanti colpi di scena e baci e abbracci da fine stagione al traguardo, ma disputata senza pubblico. Del resto, per riuscire a sopravvivere un week end in più dello sci alpino e dello sci nordico la IBU (la federazione internazionale del biathlon) aveva disposto le porte chiuse sin dalle competizioni ospitate da Nove Mesto il week end precedente. Smaltita l’adrenalina per la gara, mi ha assalito il rimpianto, quello di non aver visto qualche ora prima l’ultima gara maschile, anche quella decisiva per l’assegnazione della sfera di cristallo generale, e quello di non aver potuto vedere causa lavoro l’ultima fatica di Federica Brignone, Super-G di La Thuile datato 29 febbraio, prima che maltempo e Covid-19 dessero a tavolino la vittoria all’azzurra nella classifica generale. Oltre il rimpianto, il vuoto o, meglio, la sensazione di vuoto generata dall’idea che chissà quando si potrà tornare a parlare di sport “giocato”.
Il pallone l’avevo salutato con meno rimpianti nel corso dei giorni precedenti. Troppo surreale assistere alla polemica tra Juventus e Inter su come disputare il big match in programma il 1° marzo, sullo sfondo di quel tragico weekend di allegra isteria in cui Milano e il Nord “ripartivano” solo per fermarsi molto più contagiati qualche giorno dopo. Ancor più surreale vedere la partita andare in scena la sera di domenica 8 marzo con l’inevitabile sensazione che il governo del calcio e non solo avrebbe fatto finire quella giornata solo per fermare tutto e stavolta chissà per quanto il martedì successivo. Fermo restando che la UEFA, facendo disputare fin dove possibile gli ottavi di Champions League e di Europa League, era andata oltre. Già, perché quel bellissimo finale di Liverpool-Atletico Madrid, calcisticamente parlando, quell’alternarsi di emozioni nei tifosi delle due squadre allo stadio lasciava un dubbio atroce sul perché quelle migliaia di persone erano sugli spalti.

La sera prima Valencia-Atalanta mi aveva fatto lo stesso effetto che avrebbe avuto la Wierer qualche giorno dopo: un’impresa nel momento sbagliato che, però, per un istante ti restituiva il senso di bellezza e imprevedibilità della competizione sportiva. Ma la voce di Pierluigi Pardo che, rimasto a Milano, insistentemente nel corso della telecronaca consigliava agli atalantini di tenersi la gioia in casa e di non riversarsi nelle strade mi faceva riflettere. Il giornalista Mediaset non è tra quelli da me più apprezzati, anche per quella sua caratteristica di dover ricordare, da contratto, venti volte a sera che Tiki Taka col bomber Bobo Vieri è pronto a dirci cose sconvolgenti a telecronaca finita. Bene, il fatto veramente sconvolgente di quella sera è che stavolta Pardo stava ripetendo, in modo giustamente allarmato, una cosa perfettamente condivisibile, la cui drammaticità sarebbe emersa ancor di più nei giorni a seguire. Chissà quanti delle migliaia di bergamaschi morti nelle settimane successive la notte del 10 marzo avevano pensato “Quest’anno vinciamo la Champions League”.

In futuro narrare di quella splendida utopia che è l’Atalanta di Gasperini sarà impossibile senza citare il #Coronavirus. Purtroppo, però, già oggi una narrazione del #Coronavirus senza l’Atalanta sembra impossibile. E, come spesso accade quando una ipotesi di lavoro diventa di pubblico dominio, sono molti a commettere errori nella narrazione di ciò che attorno a questa teoria ruota.
Come immagino spiegherebbe bene l’articolo apparso sul sito di Repubblica il 20 marzo scorso, Atalanta-Valencia a San Siro, il detonatore del contagio, se solo non fosse contenuto a pagamento (a proposito di solidarietà digitale…), «all’unità di crisi della Protezione civile, negli ultimi giorni, ha cominciato a farsi strada un’ipotesi», quella che l’abnorme concentrazione di persone provenienti da Bergamo nello stadio di San Siro, in occasione dell’andata tra Atalanta e Valencia, abbia favorito la trasmissione del virus. Tre giorni dopo, nella trasmissione di La7 Otto e mezzo, il noto giornalista Andrea Scanzi fa sua questa teoria e spara a zero contro quell’«imbecille patentato che a metà febbraio ha fatto disputare Atalanta-Valencia a Milano» facendo esplodere «una bomba a mano sanitaria». Peccato, perché non è difficile ricordarsi che il 19 febbraio, giorno del match incriminato, vivevamo tutti come se il Covid19 fosse pertinenza solo dei cinesi e che il caso del paziente 1 di Codogno sarebbe venuto a galla la sera successiva… Peccato, perché è indice di faziosità o scarsa conoscenza dell’argomento omettere che l’Atalanta aveva disputato anche le tre partite del girone a Milano, vista l’impossibilità del suo stadio di ospitare match di Champions League… Peccato, perché nello studio della Gruber nessuno ha fatto notare a Scanzi l’incongruenza delle sue affermazioni, al di là della probabile validità dell’ipotesi su Atalanta-Valencia detonatore del contagio.
Peccato, infine, che, quando si cita lo sport, non si perda il tempo necessario a verificare i dati o a incrociare le informazioni, come se lo sport fosse solo intrattenimento, show, sovrastruttura e non uno dei più grandi e importanti motori della società attuale.
E se c’è una cosa che questa pausa da #Coronavirus sta mostrando è proprio come lo sport, pur senza il momento agonistico, va avanti lo stesso. a far parlare di sé, a muovere opinioni, a produrre narrazioni.

federico