«Non sono razzista, ma…». Chissà quante volte avete sentito usare questa frase come premessa a successive sparate contro “loro” – ne*ri, albanesi, zingari, musulmani fa poca differenza – che sono sporchi, maleducati, sudati e fanno cose che “noi” non facciamo – stuprano, rubano, spacciano, parlano ad alta voce, passano con il rosso, anche qui non fa differenza. Sparate che mostrano in maniera incontrovertibile come quella premessa sia falsa perché in tal modo l’interlocutore si rende protagonista di

manifestazioni o atteggiamenti di intolleranza originati da profondi e radicati pregiudizî sociali ed espressi attraverso forme di disprezzo ed emarginazione nei confronti di individui o gruppi appartenenti a comunità etniche e culturali diverse, spesso ritenute inferiori.

Ovvero è un razzista, secondo la definizione che dà la Treccani.

In occasioni ufficiali un modo più subdolo di “non essere razzista MA” è quello di definirsi antirazzista, anche con orgoglio, come se il solo averlo messo in dubbio fosse una colpa indelebile dei presenti, e poi provare a buttar là osservazioni minimizzanti («in Italia il problema razzismo non esiste o, comunque, non è come negli USA e in Gran Bretagna») oppure svuotare dalle loro implicazioni sociali episodi di intolleranza tipo i “buu” nei confronti dei calciatori di colore («erano pochi imbecilli», «sono solo sfottò», «il tal giocatore sarebbe stato fischiato lo stesso anche se fosse stato bianco, giallo o blu»). Il cerchio del perfetto “antirazzista” si completa poi con la colpevolizzazione del discriminato. Vedi, ad esempio, le dichiarazioni rilasciate da Leonardo Bonucci dopo Cagliari-Juventus del 2 aprile 2019, match in cui l’attaccante Moise Kean, al tempo in forza ai bianconeri, segnò e si mise a braccia larghe sotto la curva che gli aveva riservato fischi e ululati sin dal primo tempo.

Lo psicodramma che ha creato all’interno della FIGC e dello spogliatoio azzurro la decisione sull’inginocchiarsi oppure no prima dei match della Nazionale a Euro 2020, ha messo in crisi questo paradigma. Un vero “non sono razzista MA” avrebbe difeso con orgoglio il suo “antirazzismo” fatto di minimizzazioni, svuotamenti e colpevolizzazioni carpiate e non avrebbe mai messo in dubbio il suo rimanere all’in piedi, magari aggiungendo, come fatto dagli ungheresi, che ci si mette in ginocchio solo davanti a Dio e alla futura moglie.
E invece, il 28 giugno, a un paio di giorni dalla partita con il Belgio e dopo il mancato kneeling nel match contro l’Austria, ecco arrivare una nota in cui si spiega che gli azzurri si inginocchieranno, ma per rispetto degli avversari (il Belgio è una delle Nazionali che si è sempre inginocchiata, a differenza dell’Austria) e non per aderire a una campagna che non condividono.[1] Ipocrisia allo stato puro, che si può riassumere con un bel

Non sono antirazzista MA … “loro” riescono a prendere decisioni e “noi” no…
Non sono antirazzista MA … “loro” stanno a fare i buonisti in mondovisione e “noi” una figura di m*a…

Più tardi la FIGC ha fatto sapere che quel messaggio non era ufficiale (anche se a metterlo in giro era stato il responsabile della comunicazione della Federcalcio stessa Paolo Corbi[2]) e ha spiegato che, di fronte a Lukaku e compagni, ognuno farà ciò che vuole. Cioè, esattamente quanto fatto contro il Galles due settimane prima, quando sei azzurri sono rimasti in piedi, cinque no e, per giustificare questa asimmetria, si è tirata in ballo la mancanza di un precedente dibattito nello spogliatoio.

Ci sarà, però, una differenza: il 2 luglio contro il Belgio la presa di posizione di ciascun azzurro in campo o in panchina sarà da considerare meditata. Potremo così capire chi, inginocchiandosi, proverà a dare un segnale, pur se debole e sfiancato da mille distinguo, nella direzione di una presa di coscienza del fatto che in Italia il problema delle discriminazioni esiste; e chi, invece, rimanendo in piedi potrà definitivamente togliere quel “MA” dal “non sono antirazzista” e assurgere a simbolo di anti-antirazzismo, in nome di quella fantomatica libertà di essere intolleranti difesa anche dal ct Mancini. Che poi due negazioni affermano.

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[1] L’incapacità da parte dell’entourage azzurro di ammettere che il taking a knee abbia ormai una risonanza globale, si misura con i tentativi di ricondurre tale gesto temporalmente e spazialmente alla campagna Black Lives Matter e alle proteste scoppiate nel giugno 2020 negli USA dopo la morte di George Floyd. Tentativi funzionali alla narrazione dominante del razzismo problema non italiano. Per approfondimenti in merito al gesto del kneeling e in genere alle proteste black nello sport si rimanda qui.
[2] Nei giorni successivi alla nota di Corbi sono emersi post che indicano come il suddetto Corbi sia molto vicino alle posizioni razziste espresse dai partiti di destra italiani ed europei. Ed è lui che ha in mano la comunicazione della FIGC