Su questo blog il nostro amico, nonché membro della Società Italiana di Storia dello Sport, Marco Giani si è già occupato di Nazionale femminile in un articolo dedicato ai “piccoli eroi del quotidiano”, ovvero ai genitori delle #ragazzemondiali, come sono state ribattezzate le giocatrici della Nazionale protagoniste ai Mondiali di Francia 2019, e all’aiuto che hanno dato alle loro figlie per permettere loro di continuare a giocare a calcio. Questa volta Marco ci regala una riflessione più lunga e corposa su come le azzurre hanno affrontato il pregiudizio per eccellenza del calcio femminile, quello legato alla presunta omosessualità di tutte coloro che si dedicano al calcio.
Vista la ben nota difficoltà di fare coming out da parte degli sportivi maschi, una delle domande cui l’articolo cerca di rispondere è se nel caso delle donne le cose vadano in modo diverso. Lo spogliatoio emerge come un luogo ancor più inaccessibile rispetto a quanto accade in campo maschile, quasi sicuramente più protettivo nei confronti delle singole, ma separato dal resto del mondo in cui molte calciatrici, per il solo fatto di dover “scontare” la loro scelta di praticare un gioco “maschile”, tendono a uniformarsi il più possibile alle norme eterosessiste. Altro fattore discriminante da considerare è il luogo: l’Italia, scrive Giani, è un paese “prudente”. Per questo diventa molto importante andare a cogliere come prima e dopo il buon successo mediatico del Mondiale 2019 sia cambiato il modo di comunicare scelto da alcune #ragazzemondiali. Buona lettura.
Il Mondiale femminile di Francia 2019 fra sessismo, omofobia, baci e coming out – di M. Giani – PRIMA PARTE
Se il calcio non è “gioco per signorine”
Nel 2015, durante una riunione federale della Lega Nazionale Dilettanti, il presidente Felice Belloli si sfogò, dichiarandosi stanco di dover dare «soldi a queste quattro lesbiche»[1]. Tale dichiarazione, che costò all’autore il posto da dirigente, rimane assai significativa a livello storico, perché fece riemergere mediaticamente quello che possiamo definire il pregiudizio per antonomasia, che tuttora affligge almeno a livello carsico la disciplina agli occhi di molti connazionali. Non a caso quello stesso anno, intervistando Sara Gama in merito a una serie di pregiudizi sulle calciatrici, Nadia Toffa dedicava al loro orientamento sessuale la seconda domanda: «È vero che siete tutte lesbiche?». Senza fare una piega, l’attuale capitana della Nazionale rispondeva: «No, no, non è vero. Come ce ne sono da tutte le parti, ce ne sono anche nel calcio»[2].
Parlando qualche anno fa della propria personale esperienza di calciatrice dilettante nel Seitenwechsel, squadra composta solo da giocatrici omosessuali impegnata in un campionato locale misto a Berlino, l’attivista LGBT tedesca Tanja Walther-Ahrens spiegava che di solito ciò che scandalizzava gli spettatori maschi, allorquando vedevano lei e le compagne giocare, non era tanto il loro orientamento sessuale, quando proprio che fossero donne desiderose di praticare il Fußball[3]. Anche se spesso nel discorso pubblico il pregiudizio sessista (“il calcio non è uno sport per donne”) e quello omofobico (“quindi tutte le donne che giocano a calcio devono per forza di cose essere lesbiche”) si confondono, è importante tenerli separati a livello di metodo, proprio per poterne studiare meglio l’interazione, che può essere descritta come un nesso consecutivo:
«[In Italia] la donna viene usata come ornamento e tutta la nostra cultura e quindi probabilmente nel calcio femminile in realtà, ma in realtà non è solo nel calcio femminile, spesso il fatto di avere magari dei lineamenti e degli atteggiamenti più “maschili”, virgolettiamo tutto questo, di conseguenza una è lesbica, è per forza un maschio, perché uno non aderisce ai canoni loro»[4]
Se si accetta il pregiudizio sessista, è infatti assai facile finire per bollare come “deviate” tutte le donne che osino giocare al gioco “dei maschi”, rimanendo lo sport «uno dei principali luoghi dove i giovani, maschi e femmine vengono socializzati agli stereotipi di genere»[5], come dimostrato, ad esempio, dal ricordo delle pioniere del rugby in Italia: «su di noi abbiamo sentito dire di tutto […]. Ci hanno dato delle lesbiche e delle troie»[6]. Proprio il secondo insulto, solo apparentemente opposto al primo, mostra il carattere (secondo la vox populi) “deviato” della scelta di donne che decidono di scostarsi dalle aspettative su ciò che una “brava ragazza” dovrebbe fare, in ambito sportivo.
Si tratta di un fenomeno ben conosciuto dagli studiosi di calcio femminile inglese. La forte caratterizzazione maschile del gioco a livello di mentalità diffusa, infatti, ha nei decenni scorsi costretto molte calciatrici britanniche ad adottare lo stereotipo della butch, ‘lesbica dall’aspetto mascolino’ (in opposizione alla femme ‘lesbica dall’aspetto femminile’), anche al di là della propria identità sessuale: ciò ha causato in molte calciatrici un sentimento di perenne frustrazione. Il problema di fondo di queste sportive è, in una parola, come riuscire a gestire socialmente il proprio corpo sportivo muscoloso, da una parte, e la propria identità di donne, dall’altra[7].
È esattamente lo stesso problema che hanno dovuto affrontare le #RagazzeMondiali nel momento in cui sono state chiamate a costruire la propria immagine mediatica all’interno del panorama nazionale. All’infuori di qualche illustre eccezione quale Carolina Morace, l’italiano medio non aveva nel proprio immaginario, anche visuale, alcunché alla voce “calciatrice”. Le precedenti raffigurazioni, ancora interne al ristretto mondo del calcio femminile, indugiavano spesso attorno a un’immagine ancora femminilizzata, arrivando a risultati a volte pacchiani, quali tacchi innestati su scarpe da calcio, o all’abuso del colore rosa in ogni dove: una raffigurazione che, volendo essere rassicurante, tendeva a “nascondere” elementi iconici potenzialmente disturbanti per molti in Italia, quali il fango, o ancor peggio l’ostensione dei muscoli femminili.
Nello stesso Quelle che … il calcio. Le ragazze del Mondiale, scritto a quattro mani da Milena Bertolini e Domenico Savino alla vigilia del Mondiale 2019, si può osservare un continuo oscillare fra immagine tradizionale ed immagine innovativa, fra muscoli in bella mostra e poi subito rassicurazioni che la tal calciatrice è affascinante anche in abito da sera.
Si tratta della stessa cautela (o ipocrisia) per cui, ormai qualche anno, fa i dirigenti della Women’s Professional Soccer (WPS), lega professionistica statunitense attiva dal 2007 fino al 2012, diffusero intenzionalmente attraverso i media e il marketing una certa immagine – rassicurante per il pubblico, abituato ad una immagine “femminile” del soccer[9], quella della donna calciatrice etero e possibilmente madre di famiglia.
Al fondo di questi atteggiamenti c’è una comune radice “normalizzatrice”, che va a colpire tutte coloro che praticano il calcio. Essendo, infatti, in Italia (così come in altri paesi) il calcio considerato il principale degli sport maschili, quelli cioè che «associati a qualità e valori quali virilità e maschilità, consentono di rafforzare l’identità di un atleta come un uomo “veramente uomo”, ossia macho, energico e mascolino»[10], le giocatrici, indipendentemente dal loro orientamento sessuale, hanno il timore di essere messe alla gogna per lo sport “mascolino” a cui sono date, per nulla aderenti agli stereotipi di genere. E per questo alcune di loro provano a «conformarsi alle “norme eterosessiste” vigenti, adottando «strategie volte alla loro iper-femminilità», quali «ad esempio, usare un trucco eccessivo durante l’allenamento»[11].
Durante il torneo in terra francese, le #RagazzeMondiali hanno invece voluto mostrare, attraverso un uso assai sapiente dei social, fino a che punto lo sport, al posto di essere un diffusore di raffigurazioni stereotipate fin troppo binarie, possa. volendo. anche essere occasione di un loro superamento, attraverso la sperimentazione «di nuove forme di maschilità e femminilità, che assumono carattere sempre più contraddittorio»[12]. Gli stessi fan delle azzurre hanno mostrato di apprezzare il sapiente mix di femminilità tradizionale e non convenzionale veicolato dalle loro beniamine, simboleggiato ad esempio dall’accostamento fra le unghie laccate di verde, bianco e rosso di Martina Rosucci e la grinta “virile” di Sara Gama sul campo[13].
Quando si esce (dagli stereotipi)
Affermare qualcosa di scientificamente fondato – al di là quindi dei pregiudizi di cui abbiamo parlato finora – riguardo l’entità della presenza di calciatrici che si dichiarano lesbiche all’interno degli spogliatoi del calcio femminile è impresa assai ardua[14]. In ambito italiano si è perciò quasi sempre costretti a fondarsi sulle dichiarazioni delle stesse calciatrici, dichiarazioni come vedremo spesso “interessate”, in quanto pervase dal pur legittimo desiderio di proteggere le compagne di spogliatoio dall’omofobia che ancora informa la società. Se quindi, muovendosi nell’attualità, non è facile dissipare tale cortina di fumo, quando ci si sposta sul piano diacronico la situazione è ancora più drammatica, giacché non esiste alcuno studio storico né sul pregiudizio omofobico all’interno del calcio femminile italiano, né sull’effettiva presenza di calciatrici omosessuali negli spogliatoi italiani, né tantomeno sull’interazione fra movimento LGBT e calcio femminile in Italia[15].
Ciò detto, si proverà ad applicare anche al caso italiano una serie di conclusioni frutto di studi compiuti per lo più in ambito anglosassone, i quali hanno permesso, ad esempio, di catalogare una vasta casistica di pratiche omofobiche specifiche dello sport femminile: silenzio; negazione; apologia; promozione di una immagine eterosessuale, contrassegnata da una attrattività convenzionalmente eterosessuale; attacchi verso le donne che si dichiarano omosessuali; preferenza per allenatori uomini[16]. Per quanto possa sembrare stupefacente, oggigiorno «lo sport continua a costituire, ancor più della scuola, una fortezza inespugnabile per la promozione di una cultura che valorizzi le differenze e sostenga la tutela dei diritti e della possibilità di esprimere le proprie peculiari dimensioni identitarie, sessuali e non solo, in modo autentico e spontaneo», in quanto, «al pari delle altre agenzie di socializzazione primarie e secondarie, con la sua articolazione complessa tra gruppo di pari, gruppi formali e informali, contesti di apprendimento e di allenamento», contribuisce alla sopravvivenza di «stereotipi di genere e sessuali prevalenti nella propria cultura di appartenenza: aderisce e ne sostiene i sistemi ideologici sessisti, genderisti ed eteronormativi, alimenta il pregiudizio sessista ed omo-transfobico»[17].
Vista questa massa di pregiudizi, è inevitabile che «nei gruppi sportivi fare coming out non sia una scelta conveniente e fingersi eterosessuali sia più funzionale a preservare le relazioni di gruppo e garantire la continuità del supporto economico e commerciale offerto dagli sponsor. Proprio per questo motivo, diversi atleti possono liberarsi della gabbia identitaria e fare coming out solo al termine della propria carriera»; per rimanere in ambito calcistico, si pensi all’esempio del 31enne centrocampista tedesco Thomas Hitzlsperger (che i tifosi italiani potrebbero ricordare per la breve parentesi nella Lazio, nel 2010), che, dopo l’ultima stagione nell’Everton (2012/13), nel gennaio 2014 dichiarò pubblicamente la propria omosessualità, denunciando al contempo «il clima omofobo presente negli spogliatoi e di come il modello del calciatore gay non si confà al cliché del calciatore forte e virile». Marginalizzati perché antitesi dello stereo-prototipo del maschio, forte, virile, eterosessuale, potente fisicamente, gli atleti che fanno coming out rischiano di assumere su di sé le caratteristiche opposte alla virilità, ovvero l’effeminatezza e la fragilità, caratteristiche, in genere, stereotipicamente attribuite alla donna, cosiddetto sesso debole[18]. La tragedia di Justine Fashanu è il caso esemplare che purtroppo il calcio maschile può offrire al mondo intero.
Due interessanti esempi del rapporto fra coming out maschile e scelta oculata della tempistica provengono dal mondo del pattinaggio artistico. Quando, nell’agosto del 2013, il pattinatore statunitense Jeremy Abbott venne interrogato dai giornalisti circa la sua opinione personale sulle leggi omofobe in vigore in Russia, non disse nulla, al contrario di quanto fece qualche mese dopo, non appena la federazione del suo paese gli confermò ufficialmente la convocazione ai Giochi Invernali di Sochi 2014. Al contrario, il campione olimpico Johnny Weir fece il suo coming out solo nel 2011, quindi dopo aver partecipato con la squadra USA ai Giochi Invernali di Vancouver 2010[19].
Tutti gli esempi fatti finora riguardano però sportivi maschi: c’è una reale differenza per le donne? All’interno della visione della hegemonic masculinity che informa le società occidentali, «l’omosessualità femminile, nonostante sembri maggiormente tollerata, risulta, in realtà, deformata, marchiata da visioni preconcette», che vorrebbero in generale la donna «più emotiva, fragile e debole rispetto all’uomo». Tuttavia, dal momento che lo sport «richiede alle atlete caratteristiche fisiche e psichiche di determinazione, coraggio e prestanza considerate di patrimonio maschile», ne deriva che una donna che pratichi sport a livelli agonistici «tende ad essere considerata come in possesso di queste qualità e, di conseguenza, è vista come mascolina, poco femminile e, in ultimo, lesbica. Il vederla poco aggraziata e affine a un uomo significa, dunque, de-femminilizzare le sue caratteristiche fisiche e psichiche. Se questo è vero in generale, nel caso del calcio la situazione si complica: in un interessante studio del 2017 fatto a partire da una serie di interviste a utenti italiani di forum on-line sportivi, emergeva come la maggior parte degli intervistati si dichiarasse genericamente non omofobica; però, mentre di fronte alla domanda se avrebbero provato o no imbarazzo a trovarsi di fronte una persona omosessuale in ambito calcistico la risposta era “sì”, le cose cambiavano e la risposta prevalente era “no” se l’ambiente ipotetico diventava quello del basket, o del nuoto.
Se, quindi, alcune donne omosessuali si possono effettivamente accostare al calcio, in quanto disciplina meno legata agli stereotipi “femminili”, e qui trovare un ambiente più open-minded rispetto anche a eventuali coming out, ciò non fa che rinforzare il pregiudizio popolare sulle calciatrici “per forza” lesbiche. Ciò che emerge, da questo gatto che si morde la coda, è ancora una volta «la natura paradossale e altamente ambivalente del rapporto che intercorre tra sport, sessualità e pregiudizi»[20].
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[1] Alla LND era allora affidata l’organizzazione della Serie A femminile, passata dalla stagione 2017/2018 alla Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC)
[2] Cit. in M. Giani (2020), Storia di un pregiudizio, e di una lotta, in F. Seneghini, Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il Duce (Milano: Solferino), pp. 217-330, p. 220
[3] G. Kuhn (2019), Soccer vs. the State. Tackling Football and Radical Politics (Oakland: PM Press), pp. 103-104
[4] S. A. Kyeremeh (2017), Corpi neri in spazi maschili bianchi. Le atlete italiane nere o di origini straniere nello sport italiano, in “La Camera Blu”, 17, pp. 183-208, p. 192. Per tutelare la privacy dell’intervistata, la ricercatrice usa uno pseudonimo, ma il profilo biografico di «Zoe» («27 anni, calciatrice ed atleta della squadra Nazionale Italiana, italiana nata da una coppia bi-nazionale italiana e congolese, [intervistata il] 4 aprile 2016») la fa facilmente identificare con Sara Gama
[5] A. Tuselli, G. Vingelli (2019), Sport e questioni di genere, in L. Bifulco, M. Tirino (a cura di), Sport e scienze sociali. Fenomeni sportivi tra consumi, media e processi globali (Roma: Rogas), pp. 48-71, p. 55
[6] E. Lucchese (2019), Le donne del rugby, in M. Canella, S. Giuntini, I. Granata (a cura di) Donna e sport (Milano: Franco Angeli), pp. 365-377, p. 372
[7] C. Dunn, J. Welford (2017), Women’s Elite Football, in J. Hughson, K. Moore, R. Spaaij, J. Maguire (eds.), Routledge Handbook of Football Studies (London, New York: Routledge), pp. 138-150, p. 140. Sono le stesse conclusioni della ricerca di Sartore e Cunningham, secondo cui una sportiva, «inserita in un ambiente essenzialmente maschile, è spesso percepita come meno capace di un uomo e costretta a manifestare la propria congruenza con gli standard che definiscono la femminilità». Per questo motivo «le sportive si ritrovano a vivere una situazione ambigua e contraddittoria: infatti, da un lato, non devono assumere comportamenti troppo femminili altrimenti rischiano di essere ridicolizzate, banalizzate e sessualizzate ma, dall’altro, neanche essere troppo mascoline poiché rischierebbero di essere demonizzate e tacciate di omosessualità. Allora il rischio è che le donne, al di là del proprio effettivo orientamento sessuale, per il solo fatto di essere inserite in un ambiente considerato tradizionalmente maschile, siano etichettate come lesbiche» (A. L. Amodeo, N. D. Casolare, S. Picariello (2017), La percezione dell’omofobia nello sport: uno studio esplorativo, in G. Valerio, M. Claysset, P. Valerio, Terzo tempo, fair play. I valori dello sport per il contrasto all’omofobia (Milano: Mimesis), pp. p. 41-59)
[9] Vedi le soccer mums del Mondiale di USA 1999, FIFA 20192 = FIFA World Football Museum, The Official History of the FIFA Women’s World Cup (London: Carlton Books), p. 65
[10] Amodeo, Casolare, Picariello, La percezione, cit.
[11] Ivi
[12] Tuselli, Vingelli, Sport e questioni di genere, cit., p. 55.
[13] M. Giani (2020), #RagazzeMondiali. Spinte globalizzanti e specificità nazionali nel calcio femminile italiano, in “Glocalism”, 1 (2020), pp. 1-105, p. 57
[14] Come affermato dai tre autori di uno studio pionieristico sull’argomento, «risulta ancora scarsa la letteratura scientifica, soprattutto nazionale, sull’argomento», Amodeo, Casolare, Picariello, La percezione, cit. Sempre nel 2017, i due autori di un altro studio pioneristico a riguardo affermavano che «nessuno studio empirico a nostra conoscenza ha esplorato gli atteggiamenti verso atleti gay e lesbiche all’interno dell’ambiente calcistico italiano» (Pistella, Baiocco, Atteggiamenti, cit., p. 65)
[15] Analogamente, non esiste al momento uno studio storico neanche sull’eventuale interazione (o, al contrario, sul “non incontro”) fra movimenti femministi degli anni Sessanta/Settanta e calcio femminile italiano
[16] D. L. Gill (2001), Sport and Athletics, in J. Worell (ed.), Encyclopedia of Women and Gender (San Diego: Academic Press), pp. 1091-1100, p. 1098.
[17] Amodeo, Casolare, Picariello, La percezione, cit.
[18] Cfr. Amodeo, Casolare, Picariello, La percezione, cit., anche per le dichiarazioni di Hitzlsperger
[19] Le altre discipline sportive forniscono una nutrita casistica: «Emblematico è il caso della tennista Martina Navratilova che negli anni ‘80, dopo il suo coming out, perse un’ingente somma di denaro di contratti pubblicitari. O ancora, nel 2002, quando il giocatore di football Esera Tuaolo rivelò la propria omosessualità, un suo compagno di squadra dichiarò che, se il compagno avesse fatto coming out mentre era ancora impegnato in campionati, sarebbe stato odiato ed etichettato non solo dagli altri membri del team ma dagli stessi fan della squadra. Similmente, nel 2007, quando il giocatore di basket John Amaechi nella propria biografia, a fine carriera, fece coming out, Tim Hardaway (ex giocatore NBA) dichiarò apertamente l’odio nutrito contro gli omosessuali e che non avrebbe in alcun modo voluto un giocatore gay nella sua squadra» (Amodeo, Casolare, Picariello, La percezione, cit). Si veda, inoltre, anche la testimonianza dell’hockeista in-line italiana Nicole Bonamino: «finché giochi con la tua squadra non ci sono problemi, ma quando arrivi in Nazionale è un po’ diverso. Ad un Mondiale rappresenti l’Italia e se a qualcuno non piace il tuo orientamento sessuale potresti essere fuori dalla squadra»
[20] Per tutto quanto riportato nel paragrafo si veda Amodeo, Casolare, Picariello, La percezione, cit.