Vincere in Bolivia non è mai facile per nessuno. Vincere lontano da La Paz, Sucre o Cochabamba, per la Bolivia, è ancor più difficile. La storia calcistica della nazione, che ha nel nome e non solo nella bandiera il riferimento al Libertador Simón Bolívar, si può riassumere così. Se guardiamo, infatti, quanto accaduto nelle prime quaranta edizioni della Copa América, scopriamo che i boliviani sono arrivati solo due volte sul podio, che solo due volte hanno ospitato la competizione e che ovviamente le due circostanze coincidono.
La prima volta, nel 1963, fu addirittura vittoria, ma paradossalmente conta meno. Uruguay e Cile disertano la competizione perché si rifiutano di giocare a La Paz, a 3600 metri sul livello del mare, le altre nazionali protestano e ottengono che si giochi anche a Cochabamba, a “soli” 2230 metri d’altezza. Il Brasile, comunque, convoca gente come Marco Antônio, Flavio Almeida da Fonseca, Claudio Danni e Procopio Cardoso e, se pensiamo che l’anno prima con Vavà, Pelé, Amarildo e Garrincha si era confermata campione del mondo, capiamo quanta importanza dia alla manifestazione. L’Argentina non è da meno e porta una squadra di tanti giovani che poi non saranno famosi. Detto questo, i padroni di casa sono bravi ad approfittare del fattore campo e del fattore altitudine. Un rocambolesco 4-4 in rimonta sull’Ecuador nella partita e poi solo vittorie nel girone all’italiana che vede confrontarsi tra loro le sette partecipanti (anche il Venezuela è, infatti, assente). Il secco 2-0 con cui la Bolivia regola a Cochabamba il Paraguay vale, a conti fatti, la Copa, ma i risultati più prestigiosi sono il 3-2 all’Argentina e il conclusivo 5-4 al Brasile. Quel giorno segna una doppietta Victor Ugarte, centravanti di buona tecnica, spesso indicato come miglior giocatore boliviano di sempre, la cui fama non è, però, mai andata oltre il paese andino, anche per le non fruttuose apparizioni in Argentina col San Lorenzo e in Colombia con l’Once Caldas.
La più forte squadra che la Bolivia sia riuscita a mettere in campo nel corso del XX secolo è, invece, quella dei vari Trucco, Baldivieso, Cristaldo, Erwin Sanchez e del diablo Etcheverry, l’unica in grado di conquistare sul campo la fase finale di un Mondiale, la sola ad aver sognato di alzare nuovamente la Copa América.
Tutto inizia tra luglio e agosto del 1993, quando, un po’ a sorpresa, nel girone di qualificazione per USA ’94, la Bolivia batte in casa prima il Brasile 2-0 e poi l’Uruguay 3-1. Le due superpotenze si rifanno al ritorno, ma gli andini rimangono al secondo posto, un punto sopra la celeste, e staccano il biglietto per gli Stati Uniti. Prima del Mondiale americano i boliviani contano due sole disastrose partecipazioni alle fasi finali di un Mondiale, per di più da invitati, nel 1930 e nel 1950, ma la possibilità di riscrivere la storia c’è tutta. Poi nella partita inaugurale il gol di Klinsmann e il tremendo Brizio Carter, che ingiustamente espelle Etcheverry pochi minuti dopo il suo ingresso in campo, fanno capire come andrà a finire. Un misero 0-0 contro la Corea del Sud, una sconfitta contro la Spagna, solo un gol fatto o, meglio, solo un autogol a favore e di nuovo tutti a casa.[1]
In Copa América, l’anno dopo, la Bolivia raggiunge i quarti, che non è cosa di tutti i giorni, ma viene battuta dall’Uruguay, futuro campione. E, così, non resta che provare a sfruttare il vantaggio che la sorte concede, visto che dopo ben 34 anni, nel 1997, l’organizzazione della Copa América tocca di nuovo a lei.
Stavolta ci son tutti, la preparazione atletica è diventata un presupposto imprescindibile per chi gioca a pallone ad alti livelli e, quindi, l’altitudine non è una scusa che si può accampare per saltare il torneo. Per questo, le vittorie ottenute dai padroni di casa assumono un’altra dimensione: 1-0 al Venezuela, 2-0 al Perù, 1-0 all’Uruguay nel girone eliminatorio; 2-1 alla Colombia nei quarti, 3-1 al Messico in semifinale. L’ultimo ostacolo è, però, di quelli insormontabili e bastano le formazioni per capire perché. La Bolivia va in campo con Trucco, Peña, Sergio Castillo, Oscar Sanchez e Sandy, Cristaldo, Baldivieso, Soria ed Erwin Sanchez, Etcheverry e Moreno. Gli avversari, invece, si chiamano Taffarel, Cafú, Gonçalves, Aldair e Roberto Carlos, Dunga, Flávio Conceição, Denilson e Leonardo, Ronaldo ed Edmundo.
Il Brasile vince 3-1, soffrendo più del dovuto, staccando gli avversari solo al 79′ grazie a un gran sinistro di Ronaldo, ma vince e questo conta. Ai boliviani serve a poco la papera di Taffarel, che consente ad Erwin Sanchez di pareggiare momentaneamente con un tiraccio da fuori, e il rimpianto per la traversa colta da Oscar Sanchez quando si è ancora sull’1-1.
Certo, un successo nel torneo non avrebbe comunque consentito ai boliviani di sentirsi, anche solo per una volta, vincenti lontano da La Paz. La cosa veramente curiosa è, però, che quella vittoria ha consentito alla nazionale verde-oro, campione del mondo in carica e già tetracampeão, di sentirsi per la prima volta campioni del Sud America lontano dal Brasile.
federico
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[1] La Bolivia rimedia due sconfitte per 4-0 ad opera di Jugoslavia e Brasile nel 1930, una, ma per 8-0, dall’Uruguay nel 1950. Quindi, l’autorete dello spagnolo Voro è, a tutt’ora, l’unica rete segnata dai boliviani in una fase finale di un Mondiale (a fronte di 20 reti subite)
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