Esaltare le vittorie raccolte da atleti o squadre italiane in competizioni sportive internazionali. E quando invece quel successo sfugge solo all’ultimo: lodarne l’impegno, appellarsi alla sfortuna, imprecare contro le avverse condizioni atmosferiche, riversare le colpe su giudici e direttori di gara. Perché chi gareggia in rappresentanza dello Stivale è a tutti gli effetti ambasciatore dell’italianità all’estero e, pertanto, ne vanno enfatizzati i meriti e sminuiti i demeriti, ove possibile.
Si è talmente abituati a questo modo viziato di raccontare gli eventi sportivi, che quasi non ci si fa più caso. Ma cosa accade se vincitori e vinti provengono entrambi dall’Italia? La suddetta narrazione va in cortocircuito?

Il calcio vive di grandi rivalità, da sempre, e l’informazione sportiva di questo fatto se ne serve, altrettanto da sempre. Così, quando è accaduto che Milan e Juventus incrociassero le loro strade in finale di Champions League (maggio 2003), di diverso ci fu il tono con cui si fece salire l’hype in prossimità dell’evento. Tanto che Candido Cannavò sulla Gazzetta parlava di «finale europea orgogliosamente italianizzata», anche al netto di un match senza gol (validi), finito ai rigori e inguardabile dal 60′ in poi. Invece, il fatto che a vincere fu un’italiana (il Milan) ebbe più importanza del fatto che un’altra italiana avesse perso (la Juventus), come se fosse stato un normale match di campionato.

Anche il racconto del ciclismo nostrano ha vissuto di rivalità, anzi di dualismi: Binda/Girardengo, Coppi/Bartali, Moser/Saronni, persino Bugno/Chiappucci, coppia -quest’ultima- che fa capire come fossero gli stessi media a guadagnarci dal polarizzare la platea degli appassionati, creando e ingigantendo antagonismi1. E allora tifosi di Binda, Coppi o Saronni contro tifosi di Girardengo, Bartali o Moser, ma stampa contenta se alla fine il successo va a uno qualsiasi di loro e lode allo spirito italico!

Proprio lo sport della bicicletta ha, però, offerto almeno un caso in cui si è verificato un bug nella narrazione “orgogliosamente italianizzata”, per dirla alla Cannavò. È accaduto nel 1972, al Mondiale su strada di Gap riservato ai professionisti. Chi non ha mai visto l’ultimo chilometro di quella edizione della rassegna iridata è pregato di farlo, perché una qualsiasi descrizione non renderebbe giustizia al pathos di un finale, che si fa improvvisamente incerto, e al dramma sportivo di Franco Bitossi, che si vede rimontato e beffato dal compagno di squadra Marino Basso: due ciclisti in maglia azzurra, che avevano già vittorie al loro attivo, ma che quel giorno si giocavano il titolo che vale una carriera.
E ora le parole scritte in quella occasione da Gian Paolo Ormezzano per Tuttosport. Parole che spiegano perché parlo di cortocircuito.

Pagheremmo per scrivere adesso di una nostra vittoria, sì, però, accaduta in un modo diverso. Per esempio: grande volata e vince Marino Basso. Invece per vincere, Marino Basso ha dovuto uccidere Franco Bitossi. […]
Dopo la gara – troppo facile stare con Marino Basso, eccitato ed eccitante – siamo stati con Franco Bitossi, e ci siamo comportati da perfetti imbecilli, né ci conforta il fatto che altri si sarebbero comportati così. […]

Ma è poi giusto parlare di uno che ha perduto, quando c’è uno, italiano come noi, uno [che] mangia il pane che mangiamo noi, parla la nostra lingua, vive pressappoco la nostra vita […], c’è uno dei nostri che è campione del mondo?
È giusto, sì, ma è difficile, quasi impossibile.

Sono passati più di cinquanta anni da quella volata lunga in cui Basso riprese Bitossi e trovo normale, da blogger, che chi non l’ha vissuta in diretta ne scriva: guardare quel filmato e volerne parlare è tutt’uno, vedi anche Ultimo Uomo.
Però, mi sembra altrettanto normale che chi a Gap quel giorno c’era (e ne dovette scrivere per lavoro), non ricordava il tutto volentieri, anche per via di quel modo di narrare che in automatico chiedeva di enfatizzare le imprese di chi «mangia il pane che mangiamo noi». Sarà forse per questo che, negli anni Novanta e ancora nei primi anni Duemila, amarcord di quella gara sui quotidiani sportivi ne trovavo davvero pochi.