Che l’ultimo feticcio del dilettantismo cada solo nel 1985, non è certo frutto di una supposta purezza di fondo mantenuta fino a quel momento dal movimento olimpico. Al contrario, è conseguenza della ferrea volontà, mostrata dai vertici del CIO fino a una decina di anni prima, di tenere in vita la distinzione tra amateur e professionisti. Una distinzione ipocrita, come sottolinea Nicola Sbetti in Giochi di Potere. Una distinzione già ipocrita al momento della sua nascita, per essere precisi.

Lo sport moderno, inteso come volontà di codificare con delle regole condivise un gioco, sia esso la boxe, il cricket o la corsa dei cavalli, vide la luce in Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo.[1] La pratica sportiva era riservata a chi vi si dedicava per diletto, come spiega del resto la scelta del termine derivante dalla parola francese “desport” che significa “divertimento”. Benché possa sembrar strano, il diletto non escludeva categoricamente la possibilità di guadagno. Paul Dietschy nella sua Storia del calcio ricorda, infatti, che nel cricket già nella prima metà del XIX secolo si potevano incontrare dei player che del nobile sport avevano in pratica fatto la loro professione. Inoltre, anche per gli aristocratici che praticavano la boxe era possibile ricavare denaro senza essere tacciati di scarsa moralità.

Fu solo negli anni Ottanta dell’Ottocento che cominciò a diffondersi il termine “amateur”, preferibile -almeno da noi- alla sua traduzione italiana “dilettante” perché a questo vocabolo spesso si assegna una connotazione negativa. Chi si definiva amateur voleva disegnare un profondo solco tra sé e i professionisti e propugnava l’idea del gentleman che si dedicava all’attività sportiva solo per piacere e non per denaro, che dava sempre il massimo, che osservava scrupolosamente le regole e rispettava gli avversari.
Il fatto è che un profilo come quello dell’amateur era adatto solo ai membri dell’upper class, sia per l’inevitabile retorica sulla nobiltà d’animo che una siffatta narrazione dell’agone sportivo si portava dietro, sia perché fare sport, anche solo per il proprio diletto, aveva un costo ed esclusivamente chi aveva disponibilità economiche di suo poteva permettersi di considerare un disonore persino ricevere un rimborso spesa. Non a caso la pratica di discipline sportive, individuali e di squadra, era inserita nei programmi delle Public School frequentate dai rampolli delle classi agiate della società vittoriana.

Ed è proprio qui che, a parer nostro, è nascosta la chiave di quell’ipocrisia, per così dire, originaria cui accennavamo all’inizio. Il termine amateur nasceva, infatti, in un preciso contesto storico, all’interno di una specifica classe sociale e in contrapposizione a un’altra visione dello sport, il cui torto reale agli occhi di chi si professava sportivo per divertimento non era quello di prevedere compensi per le prestazioni sportive -in fondo i player nel cricket facevano questo già da anni-, ma le conseguenze politiche e sociali che questo avrebbe indirettamente comportato, dato che permetteva anche a chi apparteneva alle classi medio-basse di accedere con più costanza alla pratica sportiva.
La filosofia amateur non era, quindi, l’espressione di un universalismo in cui la prestazione vale più del risultato, ma il tentativo di una classe di difendere in ambito sportivo un privilegio acquisito. Infatti, lo sport, per dirla con Richard Holt,

stava rafforzando le ambiguità di una società in via di democratizzazione, che continuava ad essere governata da una élite sociale.

Il barone De Coubertin, l’uomo che da presidente del CIO riuscì nel 1896 a organizzare le prime Olimpiadi moderne, molto si ispirava a quanto l’upper class della società vittoriana definiva sport, anche per questioni di lignaggio. Il buon Pierre, però, certamente ignorava quali rischi comportasse la riproposizione decontestualizzata di una visione nata altrove e in qualche modo già in crisi, visto che in Inghilterra il contrasto tra dilettantismo e professionismo aveva portato nei football, rugby e association, alla nascita di leghe separate, ben prima che ad Atene iniziassero i Giochi.[2]

E, infatti, a dare il primo duro colpo alla sua famosa retorica dell’«importante non è vincere, ma partecipare» fu proprio il contesto internazionale in cui le Olimpiadi moderne si andarono a inserire. Con la nascita degli Stati-nazione, che si sfidarono nell’edizione di Stoccolma nel 1912 prima che in trincea, e poi con l’affacciarsi del nazifascismo, i singoli governi diedero via via sempre maggior importanza politica e strategica alle vittorie a cinque cerchi, alle medaglie conquistate e anche alle brutte figure.
La preparazione degli atleti era pertanto divenuta fondamentale premessa per ottenere risultati e andava agevolata. Già negli anni Trenta molti amateur erano sostenuti dal proprio Comitato Olimpico Nazionale o da particolari strutture, vedi le università americane.
La scelta di reintegrare il calcio alle Olimpiadi di Berlino del 1936 per questioni di audience, dopo lo strappo compiuto otto anni prima dalla FIFA, segnò un altro passo nella direzione dell’ipocrisia: le federazioni nazionali avevano facoltà di inserire nel proprio statuto una propria definizione di atleta non professionista o amateur, che dir si voglia, e di mandare ai Giochi atleti che risultassero non professionisti in base a tale definizione.

L’impressione è che in un mondo, quello sportivo, che stava scoprendo sempre di più il lato economico e commerciale, la parola “dilettante” avrebbe avuto le Olimpiadi contate se non ci fosse stata un’importante novità di carattere geopolitico che agevolò la strenua difesa del dilettantismo promossa da Avery Brundage, presidente CIO dal 1952 al 1972: l’URSS era uscita rafforzata dalla Seconda guerra mondiale, il mondo si avviava a essere ripartito in blocchi e alla nuova superpotenza il CIO non poteva più impedire l’accesso ai Giochi a cinque cerchi.
Semplificando un po’ la situazione potremmo dire quanto segue. Chi veniva dalle nazioni dell’Est socialista era dilettante nel senso occidentale del termine, in quanto non poteva mettere da parte ricchezze e guadagni personali, ma aveva alle spalle un intero apparato statale che investiva per migliorare le sue prestazioni; era un dilettantismo di Stato, per usare la locuzione coniata allora. E siccome, sempre occidentalmente parlando, il termine “professionismo” avrebbe rimandato direttamente al tennis, al golf o a campionati tipo NBA o NHL, ai governi del blocco contrapposto il fatto che alle Olimpiadi andassero i soli amateur evitava il rischio di far passare i propri atleti come pagati e perdenti e, al contrario, permetteva, specie negli sport meno conosciuti, narrazioni del tipo «i nostri atleti sono davvero dilettanti, mentre loro lo sono solo sulla carta».
Di fondo, intanto, il livello generale delle gare si era elevato molto, anche per l’entrata massiccia degli sponsor. Non a caso, con l’arrivo di Lord Killanin alla presidenza fu permesso finalmente dalla carta olimpica il broken time payment, una specie di rimborso spese per chi gareggiava, conteggiato in funzione della cifra che questi avrebbe guadagnato col proprio lavoro abituale.

Samaranch e Horst Dassler firmano il primo TOP, acronimo per The Olympic Partnership

Ci si potrebbe a questo punto aspettare che, come in tutte le cose che riguardano il XX secolo, sia stata la caduta del muro a determinare la svolta. Invece, il momento in cui il CIO abbandonò l’ormai obsoleta distinzione tra dilettantismo e professionismo arrivò un po’ prima, nell’ottobre 1985, quando la firma del contratto con l’agenzia di marketing ISL, International Sport and Leisure segnò la virata definitiva verso la commercializzazione del brand Olimpiade e quindi la contemporanea impossibilità di impedire agli atleti impegnati nei Giochi di mirare al proprio portafoglio.
Caso strano questa firma non fu osteggiata dal blocco orientale, perché i firmatari dell’accordo avevano amici anche ad Est. Tra gli sponsor, infatti, una parte importante la svolgevano da tempo quelli tecnici che delle commesse per fornire materiali agli atleti e alle atlete impegnate alle Olimpiadi avevano fatto un importante terreno di conquista. Anche l’Unione Sovietica e la Repubblica Democratica Tedesca avevano i loro contratti, con una nota marca di abbigliamento, il cui proprietario era guarda caso anche il fondatore della ISL. A capo del governo a cinque cerchi c’era, poi, in quel momento un altro personaggio che aveva amici a Mosca, Juan Antonio Samaranch, franchista non rinnegato ma anche ex ambasciatore spagnolo in URSS.

Ad ogni modo, il fatto che in un’epoca in fondo ancora profondamente ideologica, com’erano i primi anni Ottanta, la fine della distinzione tra dilettanti e professionisti non creò levate di scudi e passò tranquillamente sotto traccia è forse un’ulteriore dimostrazione, l’ultima in ordine di tempo, dell’ipocrisia di tale distinzione.

federico

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[1] Nel 1743 Jack Broughton introdusse delle regole che impedivano nei combattimenti di boxe di infierire sui pugili a terra. Tali regole sono oggi note come Broughton’s rules
Nel 1752 nasce il Jockey Club, che costruì un ippodromo a Newmarket nel Suffolk e stabilì regole per le corse di cavalli che si sarebbero svolte lì.
Il primo insieme di regole riguardante il cricket fu del 1744. Da notare che, Wikipedia dà come la necessità di regolare un gioco in cui molte somme di denaro sono giocate come motivo che spinse un gruppo di aristocratici a stabilire tali regole. Prima delle laws stabilite nel 1788 dal Marylebone Cricket Club non si può però parlare di regole condivise

[2] Alcune recenti ricerche hanno dimostrato che già alle Olimpiadi di Atene del 1896 ci fu un caso controverso, legato al podista italiano Carlo Airoldi cui fu impedito di gareggiare perché aveva chiesto a degli sponsor di permettergli di raggiungere Atene a piedi