British Tales. Storie di football d’oltremanica (1857-1939). 3° puntata: Il Corinthian F.C.

the time passed as pleasantly as it always does in a luxurious boat
da Annals of the Corinthian Football Club, Canadian and American tour, 1906

penalty ruleQuando nel 1891 l’International Board decide di codificare il penalty kick come sanzione da accordare in caso di fallo volontario, il Corinthian Football Club si oppone fermamente e dichiara che i propri giocatori calceranno volutamente a lato ogni rigore a favore e che il proprio portiere non proverà a intercettare nessun rigore fischiato contro. Per dei gentlemen prestati al pallone, infatti, dovrebbe essere assodato che chi scende in campo lo fa per misurarsi lealmente con gli avversari e non per infrangere intenzionalmente le regole. Ma, se proprio con una regola si stabilisce la giusta punizione per chi commette di proposito un fallo, non si sta tacitamente ammettendo che disturbare irregolarmente un avversario è una pratica consentita e, soprattutto, connaturata al gioco stesso? E non è un’ulteriore segnale che, dopo l’introduzione nel 1885 del professionismo e, quindi, della possibilità per i giocatori di percepire un compenso per i loro servigi, si va sempre più verso un calcio in cui vincere conta più dell’essere leali?

Questa rabbiosa invettiva contro l’introduzione del rigore fa un po’ sorridere alla luce dell’evoluzione avuta dal football association nel secolo successivo, ma fa venire la curiosità di andare a scoprire qualcosa in più di questa strana squadra in maglia bianca, il Corinthian. Come se non bastasse l’aver indirettamente causato la nascita del team quasi omonimo di São Paulo e l’aver convinto i dirigenti del Real Madrid a usare, anche se solo per una stagione, i pantaloncini scuri1.

La storia inizia nel 1882. N. Lane Jackson, membro della F.A., a Londra mette su un club, anzi un super-club, formato da giocatori provenienti dalle public school e dalle università. Svincolato dagli impegni della F.A. Cup, il Corinthian può giocare solo partite amichevoli. Del resto, il nome scelto più che un auspicio, è una certezza che il club si avvarrà sempre e solo di nobiluomini che praticano il calcio in modo amatoriale. Il termine ‘Corinthian’ è, infatti, molto in voga da una decina di anni tra gli aristocratici inglesi dediti allo sport e richiama alla mente la città di Corinto, sede nell’antichità dei giochi Istmici. Rimanda, pertanto, all’ideale classicheggiante dell’atleta che mira più alla fama, all’onore, alla correttezza nella disputa che alla vittoria2.

Il professional player che a fine XIX secolo scende in campo sotto compenso per il Bolton o per il Blackburn è, quindi, quanto di più lontano ci possa essere da un corinziano in maglia bianca, ma la differenza tra i due non è questione di ideali o di nobiltà d’animo e non è solo dovuta alla diversa estrazione sociale (di classe medio-bassa il primo, di buona famiglia il secondo). Decisivo è il contesto venutosi a creare nel Nord industriale dell’Inghilterra. Da quando i lavoratori hanno ottenuto il sabato pomeriggio libero, si è, infatti, avuto un progressivo aumento di spettatori e molte società hanno pensato di rendere il football uno spettacolo a pagamento. Il pubblico segue, però, con maggior attenzione le squadre che vincono trofei ed ecco la necessità di avvalersi di giocatori di buona qualità, presi dalla vicina Scozia o tra le stesse fila della working class. E se questi giocatori vanno in qualche modo pagati, poco importa.3

In una Londra che ci metterà un po’ a capire che il calcio ha inevitabilmente preso la strada del professional game, il Corinthian incarna la massima espressione del football amateur. Con vanto, ma non senza ragione. Nei primi dieci anni di attività del club sono, infatti, 44 i bianchi chiamati a vestire la maglia della Nazionale inglese; nelle sfide contro il Galles del 1894 e del 1895 c’è addirittura l’en plein: gli undici che scendono in campo per l’Inghilterra provengono tutti dal super-club londinese.
Tanti anche i risultati di prestigio. Il primo, in ordine di tempo e di importanza, per la larga eco che ne seguirà, è l’8-1 del 1884 al Blackburn, fresco vincitore della F.A. Cup. C’è poi un 5-0 rifilato nel 1889 agli invincibili del Preston North End, anche se nel computo totale delle sfide la squadra del Nord dell’Inghilterra è avanti (12 vittorie a 5). C’è un 11-3 al Manchester United nel 1904, che rappresenta ancora oggi la peggior sconfitta dei red devils. C’è poi una rotonda vittoria contro il Bury detentore della F.A. Cup (10-3 nel 1904) e una meno evidente, ma ugualmente importante, contro l’Aston Villa campione d’Inghilterra (2-1 nel 1900) nella Sheriff of London Charity Shield4.

Nell’ultimo decennio prima della scoppio della Grande Guerra e nei decenni successivi le cose, però, cambiano e le soddisfazioni per i bianchi arrivano esclusivamente dalla loro vocazione primaria: l’evangelizzazione calcistica di (quasi) tutti gli angoli del pianeta. I tour sono, infatti, una prerogativa del Corinthian sin dal 1884 e le mete preferite, per molto tempo, sono state Nord dell’Inghilterra e Scozia, calcisticamente popolate dai più pericolosi avversari, rispettivamente, di amateurism e Nazionale inglese.
Nel 1897 e nel 1903 i bianchi si sono imbarcati per il Sud Africa, che è ancora parte dell’Impero di Sua Maestà, poi a partire dall’anno successivo la traversata della Manica in direzione Europa Continentale diventa una costante: Francia, Scandinavia, Svizzera, Spagna, Germania, Impero di Austria e Ungheria, Boemia. Nel 1906 i bianchi raggiungono anche il Canada e gli Stati Uniti. L’allargamento degli orizzonti è frutto di un lento, ma inesorabile declino all’interno del panorama calcistico britannico. Il fatto è che i bianchi basano ancora tutto su una manovra che bada più all’eleganza che alla sostanza e spesso corrono a vuoto, mentre, col passare del tempo, le squadre che giocano nelle Football League stanno evolvendo verso una versione più smaliziata del football association, fatta di passaggi più corti, un po’ di tattica e preparazione atletica.

Nel 1910, sulla scia di quanto già fatto da Everton, Nottingham Forest e Tottenham Hotspur, il Corinthian si imbarca per il Sud America, ma non sceglie Uruguay o Argentina, va in Brasile e fa bene, perché lì arriva la nemesi dell’intera storia. A São Paulo, un gruppo di operai, in gran parte italiani, portoghesi o spagnoli, rimane folgorato dal modo di stare in campo dei bianchi e decide di chiamare Corinthians la società che sta per fondare. Non sapendo che quei bianchi provengono tutti dall’upper class e che da un calcio dominato ormai dal professionismo e dalle classi medio-basse stanno fuggendo, e non sospettando che le fortune di questo club paulista dalle umili origini contribuiranno non poco a salvare dall’oblio le gesta della più elitaria tra le squadre inglesi.
Siamo giunti all’epilogo, anche se quello vero arriverrà nel 1939, quando il Corinthian getterà la spugna e dismetterà definitivamente il suo ruolo di missionaria integralista del calcio amatoriale.

federico

Puntate precedenti: Campionati del mondo fatti in casa; L’evangelizzazione calcistica dell’Europa continentale;
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