Spasso, svago, ricreazione. Questo il significato che il dizionario Treccani dà al termine “diporto”, parola che nel linguaggio corrente compare ormai solo in locuzioni tipo “imbarcazione da diporto” ma che deve il suo scarso utilizzo a una specie di cortocircuito etimologico. Secondo molti studiosi, tra cui ad esempio Paul Dietschy, l’antiquata parola francese “desport”, equivalente del termine italiano “diporto”, è all’origine del vocabolo inglese “sport”. Questo significa che la società italiana, nel momento in cui è venuta a contatto con i primi giochi codificati, non ha riconosciuto in essi dei “diporti” e ha preferito definirli “sport”, perché in tal modo venivano chiamati lì dove erano stati regolamentati.[1]

In compenso, fedeli all’etimologia, molti di quelli che oggi chiamiamo sport devono la propria nascita a un diverso approccio al tempo libero da parte della popolazione. Il ciclismo ne è un esempio lampante e allo stesso tempo interessante da un punto di vista sociologico perché le classi sociali, che via via si sono avvicinate alle due ruote, lo hanno fatto con una loro peculiarità, con una loro concezione di svago, con una loro idea di ricreazione.
Come per altri veicoli meccanici -vedi automobile-, all’inizio è più una questione di eccentricità a spingere alcuni rappresentanti dell’aristocrazia o dell’alta borghesia italiana a passare del tempo libero pedalando. Siamo nell’ultimo quarto del secolo XIX e anche la diffusione di discorsi igienisti sull’importanza del tenersi in forma ha il suo effetto. Per chi se lo può permettere -visto il costo proibitivo-, velocipedi, tricili o biciclette sono trendy e status symbol in un colpo solo.

Un salto in avanti di qualche decennio e a inizi Novecento, nonostante ci sia da pagare anche una tassa di circolazione per metterle in strada,[2] troviamo molte più biciclette in giro. Il mezzo si sta infatti conquistado le simpatie della classe media e di quella operaia perché ha una indubbia utilità pratica (fa arrivare prima al lavoro) e dà una maggiore possibilità di svago (la pratica delle escursioni domenicali organizzate da specifici club parte proprio in questo periodo).
C’è, però, dell’altro. Il primo Tour è del 1903 e a vincerlo è stato l’ex spazzacamino della Val d’Aosta Maurice Garin; nel primo Giro di Lombardia, il 12 novembre 1905, si è affermato l’ex garzone del fornaio Giovanni Gerbi: entrambi hanno scommesso sulle proprie capacità fisiche, hanno acquistato la loro prima bici con i risparmi[3] e si sono messi a gareggiare, dando una sensibile svolta alla loro vita. Luigi Ganna, vincitore del Giro d’Italia 1909, ha invece cominciato a correre direttamente con la bici con cui percorreva centinaia di chilometri al giorno per andare a fare il muratore a Milano. Insomma, tra i meno abbienti capaci di andare in bici e dotati di incredibile resistenza, comincia ad affacciarsi l’idea che fare il ciclista possa diventare un mestiere. Badate bene, le biciclette pesano più del doppio di quelle attuali, le corse sono prove fisiche massacranti, ma agli occhi di chi ha ben poco diventano un’occasione per guadagnare qualcosa e un modo per ambire all’agognato riscatto sociale, altrimenti ben difficile da ottenere.

Così, comincia a prodursi e a riprodursi la narrazione del campione delle due ruote che vince la miseria riuscendo a primeggiare in competizioni durissime che mettono alla prova quella che nel linguaggio sportivo odierno è spesso chiamata “capacità di soffrire”. Di fronte a questo fenomeno il Partito Socialista, ancorato a un’analisi delle mutazioni della realtà in termini della dialettica tra borghesia e classe operaia, trascura di indagare le ragioni per cui lo sport in genere sta avendo una presa sempre maggiore sulla parte più popolare della società e bolla il ciclismo agonistico come controrivouzionario: del resto, i campioni vincono per sé e non per migliorare le condizioni della classe sociale a cui all’inizio appartenevano. Di contro, a sinistra si inizia a considerare sotto una luce diversa lo strumento bicicletta quando ci si accorge che essa può essere utile alla causa.
Come spiega Leo Goretti in un saggio apparso nel volume Lo sport e il movimento operaio e socialista, la “settimana rossa” del giugno 1914 offre un interessante spaccato dei diversi punti di vista che si hanno all’interno del movimento operaio sull’uso della bici: «a Parma il leader del sindacalismo rivoluzionario Alceste De Ambris tenne un comizio durante cui “invitò i lavoratori a vendere le biciclette per comprare le rivoltelle e ammazzare la porca borghesia”»; il giorno dopo a Ravenna erano presenti diciottomila scioperanti, grazie soprattutto all’afflusso di chi era munito di bicicletta.[4]

Tratto dal blog di Andrea Gaddini, come la pubblicità dei pnematici Carlo Marx

Non è, però, solo una questione di spostamenti agevolati: le due ruote permettono una più rapida diffusione delle notizie, una propaganda più capillare, un servizio d’ordine più efficace nelle manifestazioni. Soprattutto in Emilia-Romagna questo lo hanno capito da tempo, tanto che sin dal 1906 sono nati dei gruppi ciclistici ad hoc. A Imola, nel giugno 1912, a margine del Congresso Socialista Regionale, è arrivato il primo passo ufficiale con la costituzione del gruppo sportivo dei Ciclisti Rossi. L’agosto dell’anno dopo, sempre a Imola, è nata addirittura la Federazione Nazionale dei Ciclisti Rossi. La natura politica dell’associazione è evidente, ma -attenzione- si può parlare allo stesso tempo di natura sportiva, nel senso di “diporto”, e, quindi, ricreativa perché per il militante l’attività politica è in grado di rinfrancare la mente e lo spirito. Non ci sono, invece, gare per i ciclisti rossi: lo sport agonistico rimane una delle tante forme sotto cui si cela la nemica borghesia. Solo a partire dalla Pasqua del 1917 la Federazione a Imola organizzerà delle saltuarie pedalate di gruppo, comunque finalizzate alla propaganda.[5]

Durante la Grande Guerra la bicicletta conosce un altro utilizzo, sempre legato all’azione. L’esercito italiano ha, infatti, battaglioni di soldati-ciclisti che si muovono sulle montage del Nord Est per recapitare messaggi, per fare escursioni al di là delle linee nemiche o per spostare le armi pesanti nel corso degli attacchi. Questa sorta di cavalieri su due ruote godono di periodi di riposo più lunghi, semplicemente perché il rischio di lasciarci la pelle è altissimo: Claudio Gregori ne Il corno d’Orlando racconta che nel battaglione in cui presta servizio il futuro vincitore di due Tour Ottavio Bottecchia si conteranno 170 caduti, 745 feriti, 466 tra dispersi e prigionieri.
Il conflitto sembra, però, una sorta di parentesi: al ritorno, anche se in un clima molto più teso, riprendono gli scioperi e le lotte operaie e contadine. Che nel 1920 e ne1921 i Ciclisti rossi continuino la loro attività in seno al movimento è un dato di fatto. Ci sono anche delle squadre ciclistiche dilettantistiche che nella loro denominazione racchiudono un riferimento all’orientamento politico, come ad esempio la Sport Club Internazionale Pordenone per cui comincia a correre nel 1921 il già citato Bottecchia.
A usare la bicicletta sono, però, anche gli squadristi: Sergio Giuntini in Calcio e letteratura in italia segnala che nel romanzo Giro d’Italia di Alessandro Pavolini il protagonista, Italo, fascista modello in tutto e per tutto, capisce di poter diventare un campione di ciclismo una sera in cui corre «ad avvisare i camerati di un imminente pericolo, mentre sono impegnati in una delle loro incursioni».

Di certo, nel momento in cui il fascismo conquista il potere, la “dialettica” cambia e la questione non sarà più se e quanto l’andare in bici sia di destra o di sinistra. Come scrive Marco Fincardi[6]:

L’associazionismo ciclistico fascista assumerà una caratterizzazione fondamentalmente diversa da quella dei Ciclisti rossi. La squadra di dopolavoristi ciclisti non ha per i fascisti compiti di propaganda diretta, che può competere ai soli gerarchi; né assolve a compiti di collegamento per il PNF. Semplicemente, aggregano persone nell’Opera dopolavoro e sono obbligati a partecipare alle parate cerimoniali ufficiali con indosso la maglietta sportiva dopolavoristica, dovendo dare un’immagine positiva di sé e contribuire così, passivamente, a creare consensi al regime.

La fascistizzazione del CONI e la creazione dell’Opera Nazionale Dopolavoro sono in sostanza gli aspetti complementari di una politica che mira a stringere tutto lo sport italiano in una morsa, da un lato innalzando i campioni ad alfieri del regime nel mondo (e più in là anche della “razza italica”), dall’altro occupando anche il tempo libero degli operai con l’allettante proposta di attività sportive e ricreative.

Sì, ma il calcio cosa c’entra?
In un articolo precedente abbiamo notato che nel campionato italiano le prime squadre di calcio con il nome di aziende compaiono intorno al 1920-1921, proprio nel momento in cui in molte fabbriche si parla di occupazione. Un esempio per tutte la Michelin di Torino che nel novembre del 1920 inaugura il proprio campo sportivo, anche se già da due mesi ci sono scioperi e agitazioni in corso.
Sembrerebbe un controsenso, ma «football, bocce e gite turistiche», ovvero le attività previste dal Michelin Sport Club secondo La Stampa del 12/11/1920, sono evidentemente ben viste da chi gestisce la succursale torinese dell’azienda transalpina.[7]

Il calcio, in quel momento, non è lo sport nazionale cui siamo abituati oggi, ma è in ascesa. Questo ci porta a fare due considerazioni. In prima istanza, se è mancato un momento a inizio XX secolo in cui, in seno al movimento operaio, si riconosca al pallone un qualche aspetto potenzialmente rivoluzionario è per via della sua scarsa diffusione rispetto, ad esempio, al ciclismo. Basta scomodare la storia della partita di calcio giocata a Natale del 1914 tra soldati inglesi e tedeschi nella zona compresa tra le due trincee per capire quanto anche il gioco del calcio potesse nascondere degli aspetti funzionali alla causa, pur se molto differenti da quelli di immediata utilità offerti dalla bicicletta.
In secondo luogo, il proliferare a metà anni Trenta di squadre di calcio che hanno a che fare con dopolavori aziendali[8] è un altro aspetto dello stesso processo che ha visto l’associazionismo ciclistico fascista impossessarsi e, al tempo stesso, svuotare di significato le pratiche ricreative e sovversive insieme dei Ciclisti Rossi. Il calcio, infatti, in poco più di dieci anni, a seguito di una politica mirata da parte della federazione e grazie ai successi della Nazionale di Pozzo, è arrivato a contare un gran numero di appassionati e ad avere una grande presa sui sogni delle masse, colmando il gap di popolarità che lo divideva dallo sport del pedale. In questa ottica, l’esperimento attuato nel 1920 dalla fabbrica della Michelin sembra l’anticipazione di una pratica che poi col fascismo sarebbe divenuta istituzionale.
Insomma, viene quasi da dire, parafrasando i CCCP, che il calcio, a differenza del ciclismo, in quell’inizio di XX secolo è stato «POST senza essere mai stato niente. Niente!»

federico

Squadra ciclistica di un Dopolavoro di Teramo [www.abruzzoinbici.it]

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[1] Anche i francesi, notoriamente poco inclini ai barbarismi, hanno preferito la parola inglese “sport” alla loro “desport”. In Spagna, invece, si usa “deporte”, equivalente anche questa dell’italiano “diporto”
[2] cfr. Andrea Gaddini: «Nel 1905 la tassa era di 10 lire per una bicicletta singola e di 15 lire per un tandem, equivalenti al bollo attuale per una auto di media cilindrata»
[3] Scrive Gianni Mura che Garin acquistò la sua prima bici nel 1889 per 405 franchi: all’epoca, lavorando 12 ore al giorno sei giorni la settimana, un minatore guadagnava 200 franchi al mese
[4] cfr. L. Goretti, “Sacrifici, sacrifici, e ancora sacrifici”. Sport, ideologia e virilità sulla stampa comunista (1945-1956) in Lo sport e il movimento operaio e socialista, volume a cura di Marco Fincardi
[5] Il crescente interesse del mondo operaio e socialista verso le due ruote ha, intanto, determinato un calo del costo della manutenzione del mezzo e della bicicletta stessa. Come risulta dalle immagini accluse ci sono persino i Cicli Avanti!, dotati di pneumetici Carlo Marx
[6] cfr. M.Fincardi, Ciclisti della Camera del Lavoro nel 1° maggio reggiano (1902-1922) in Lo sport e il movimento operaio e socialista
[7] Propendiamo per l’idea che dietro la costituzione del gruppo sportivo ci sia la dirigenza stessa per lo spazio che il giornale La Stampa dà e per l’idiosincrasia che i socialisti sembrano mostrare verso la componente agonistica degli sport. Ricordiamo infatti che la Michelin si iscrive al campionato di Promozione l’anno dopo
Ad esempio iscritte alla Serie C 1936/37 troviamo almeno cinque squadre che hanno a che fare con dopolavori aziendali: la Marzotto Valdagno (in B dal 1951 al 1961 con questa denominazione, per la serie la “defascistizzazione solo apparente”), la Falck Sesto San Giovanni, la SIAI Marchetti di Sesto Calende (che aveva in sostanza rilevato la Sestese), la Bagnolese (che gioca al campo dell’ILVA), la Cantieri Tosi Taranto. Scendendo in Prima Divisione il numero cresce notevolemente grazie ai contributi anche di FIAT, Pirelli, SNIA Viscosa, Isotta Fraschini, Alfa Romeo e così via. Da notare che una squadra della Pirelli aveva partecipato, come la Michelin, alla Promozione 1920/21