3 luglio 1927. «Le sorti del campionato italiano 1926-1927 sono decise. Decise a favore del Football Club Torino a mezzo di un incontro che, vinto una volta sul campo e poi annullato per reclamo, ha visto i granata vincitor[i] per lo stesso risultato ottenuto nella prima edizione della gara, uno a zero».[1]
Un incipit asciutto e al contempo perentorio, quasi a suggerire che sul campo giustizia era stata fatta. Del resto, la decisione di far ripetere il match Torino-Bologna del 15 maggio, presa dal Comitato Arbitrale a inizi giugno, era apparsa un po’ controversa, sia per la tempistica scelta (la comunicazione era avvenuta all’indomani del derby della Mole che aveva di fatto spianato ai granata la strada verso il titolo), che per la motivazione addotta (Pinasco, l’arbitro del match, aveva sì avuto dei dubbi nel finale su un gol-non gol del Bologna, ma non aveva fatto nessuna deroga «in sede di inchiesta […] a quanto scrisse nel rapporto»[2]).
Forti anche dello stesso punteggio ottenuto sul campo, i giocatori granata potevano, dunque, lasciarsi questa estenuante stagione a spalle e pensare che alla ripresa delle attività avrebbero avuto lo scudetto cucito sulla propria maglia. E, invece, la Divisione Nazionale 1926/27 era tutt’altro che decisa…[3]
Verso la fine dell’estate cominciarono, infatti, a circolare delle voci di qualcosa di ben più grave di un direttore di gara che sotto pressione non sa stabilire se la palla ha varcato o meno la linea bianca. Il giornalista Renato Ferminelli, prima sulla testata milanese Lo Sport e poi sul settimanale romano Il Tifone, pubblicò una notizia bomba: nei giorni precedenti Torino-Juventus del 5 giugno alcuni dirigenti granata avevano cercato di corrompere dei giocatori bianconeri tramite Giovanni Gaudioso, uno studente del Politecnico che abitava nella stessa pensione dello juventino Luigi Allemandi. Fortuna di abitar anche lui lì vicino, udito finissimo o bernoccolo da cronista, chi lo sa, fatto sta che Ferminelli aveva capito che c’era qualcosa di grosso in ballo un giorno d’estate in cui aveva sentito Allemandi urlare per il mancato incasso di un premio.
Gli organi di stampa tacquero per un po’, su richiesta della Federazione che nel frattempo avviò le indagini coordinate dal segretario Giuseppe Zanetti e con la supervisione del presidente nonché gerarca Leandro Arpinati. Secondo quanto raccontato anni dopo proprio da Zanetti, gli ispettori si recarono nella stanza di Allemandi e lì ritrovarono dei pezzi di carta che, ricomposti, formavano una lettera mai spedita in cui il giocatore juventino lamentava il mancato pagamento di una parte del premio pattuito. La combine c’era, dunque, stata, ma quanto ritrovato non era utilizzabile come prova. Così, si dovette attendere la confessione di Nani, il dirigente del Torino implicato nel caso, e poi, finalmente, a inizio novembre 1927 Arpinati in persona annunciò le decisioni della FIGC: scudetto revocato al Torino, ma non assegnato al Bologna (il gerarca era della città felsinea e, probabilmente, non voleva essere accusato di aver fatto vincere i rossoblù a tavolino)[4] e Allemandi squalificato a vita. Nella ricostruzione dei fatti, poi, si spiegava come Nani, tramite Gaudioso, avesse versato 25’000 lire al terzino bianconero prima del match.
Tutto a posto? O stiamo perdendo di vista qualcosa? Ritorniamo un attimo indietro. La rabbia di Allemandi era, dunque, dovuta al mancato pagamento di una seconda tranche. Ma, se il Torino aveva vinto, perché Nani non aveva versato quanto pattuito? E perché Allemandi in quel derby era stato uno dei migliori, se non il migliore dei suoi, e la Juventus aveva perso lo stesso?
La sensazione che i bianconeri coinvolti fossero di più e che il terzino avesse agito anche da tramite è molto forte. In primis, il comportamento di alcuni suoi compagni nel corso del match convince poco: dalle gambe aperte di Virginio Rosetta in occasione della non irresistibile punizione dell’ungherese Balacics che valse l’1-1 a inizio ripresa (la Juventus era andata in vantaggio con Vojak al 44′) alla reazione fuori luogo del centravanti Pastore che lasciò i suoi in dieci prima del definitivo 2-1 siglato da Libonatti. In seconda istanza, lo stesso Pastore e l’ala Munerati furono ascoltati dalla commissione d’indagine, ma non ricevettero nessuna squalifica, nonostante al primo fosse stato contestato il fatto di scommettere «contro le sorti dei propri colori» e al secondo l’aver ricevuto doni da iscritti a altre società. Terzo, la quota sborsata da Nani, 25’000 lire, equivaleva a sessanta e più mensilità di Allemandi, decisamente troppe per pensare che fossero destinate a lui solo.[5] Quarto, il colpevole, a soli otto mesi dalla squalifica a vita, fu graziato e poté scendere di nuovo in campo… con la maglia dell’Internazionale di Giovanni Mauro, vicepresidente della FIGC, e da lì iniziare l’ascesa che l’avrebbe portato a laurearsi campione del mondo nel 1934. .
Il fatto è che, a un anno dall’introduzione della Carta di Viareggio, che sanciva la promozione del calcio a strumento del regime, lo scoppio di uno scandalo che avesse coinvolto club e giocatori era decisamente poco auspicabile. Se, dunque, l’inchiesta mirò a cercare un capro espiatorio da squalificare e poi subito perdonare, forse non ci dobbiamo meravigliare. Del resto, siamo sicuri di voler dar credito alla tesi secondo cui furono le urla di Allemandi intercettate casualmente dal Ferminelli o le lamentele sempre del terzino bianconero, raccolte nella famosa lettera fatta a pezzi e ritrovata da Zanetti, ma inutilizzabile in sede processuale, ad aver dato il giusto verso alle indagini?
In fondo, Allemandi di fronte alla commissione d’indagine non aprì bocca e solo nel 1976, poco prima di morire, in una intervista a Stampa Sera disse che in quel match del 5 giugno 1927 ci fu qualcosa di poco chiaro, ma «il colpevole non ero io…»
federico
Fonte: Carlo Caliceti, L’altra faccia del pallone, Calcio 2000, n°40, aprile 2001
Foto de Il Tifone, 4/11/1927, tratta da http://storiadellaroma.it
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[1] Dall’articolo a firma Vittorio Pozzo pubblicato su La Stampa, 4/7/1927
[2] cfr. La Stampa, 11/6/1927
[3] Il campionato 1926/27 fu il primo a non prevedere distinzione tra Lega Nord, Centro e Sud. Venti squadre, divise in due gironi, erano state ammesse alla neonata Divisione Nazionale. Le migliori tre di ogni girone avevano poi disputato il girone finale. Tra loro Torino, Bologna e Juventus
[4] La Gazzetta dello Sport il 7/11/1927 spiegava che la decisione di non proclamare il Bologna campione d’Italia era dovuta all’impressione avuta da Arpinati che il campionato fosse stato falsato
[5] Scrive Caliceti in Calcio 2000, n°40, che 50’000 lire corrispondevano a cinque Balilla e a 125 volte lo stipendio mensile di Allemandi