Pian piano diventerà Serie A. 3° puntata

kilpinDoveva essere proprio un bel tipo, Herbert Kilpin. Uno di quelli che, se avevi assistito al fatto che stava raccontando, ti conquistava perché sapeva rendere il tutto epico e divertente oppure ti innervosiva per la sua tendenza a esagerare e la sua imprecisione nel citare alcuni dati. E di aneddoti legati alla sua passione per il football Kilpin ne sapeva così tanti che nel febbraio del 1915 al settimanale Sport Illustrato bastò stuzzicare la sua memoria e la sua penna per avere un articolo su “come il football fece conquista della nostra gioventù”. Il baffuto inglese nativo di Nottingham aveva all’epoca 45 anni, da più di venti praticava football in Italia e sin dal 1899 era una colonna del Milan.

La sua prima partita, la sua prima squadra, il suo primo racconto di football italiano, come del resto il suo primo lavoro italiano, hanno però a che fare con Torino. È il settembre del 1891 quando il suo amico John Savage lo porta in Piazza d’Armi dove la squadra inglese e quella italiana della Football and Cricket Club Torino si stanno sfidando. Al “neofita” non sfuggono due cose poco English: manca l’arbitro e, a mano a mano che la partita va avanti, la squadra italiana aumenta di numero grazie alla partecipazione attiva di numerosi spettatori. Tanto che, a detta sua, alla fine gli italiani in campo contemporaneamente saranno una ventina. Ma la vittoria sarà inglese e per 5-0! Kilpin saggia ante litteram anche il concetto di marcatura a uomo di uno degli avversari: “il suo sistema di giuoco consisteva nel precipitarmisi addosso con tutto il suo peso e la velocità disponibile”. L’inglese è sempre attento a schivarlo, ma alla fine ruzzola per terra e si strappa i pantaloncini nuovi. E allora aspetta che gli si scaraventi contro un’altra volta e lo butta giù “con un colpo d’anca dei quali solo i footballers inglesi sanno il segreto”, facendogli fare “un capitombolo degno di poema” e convincendolo ad abbandonare il football per sempre.
Si sa, del resto, che l’iperbole è una delle figure retoriche preferite dai cantori epici.

Dopo aver partecipato.ai primi campionati con la maglia dell’Internazionale Torino e averle prese dal Genoa, Kilpin sbatte contro una dura realtà: per lavoro da quasi due anni è a Milano e lì non ci sono ancora società che praticano il football e, senza un impegno costante, è difficile battere i rossoblù. Così nel dicembre 1899 con un po’ di amici italiani e inglesi e con l’aiuto del console Edwards riesce a fondare il Milan Cricket and Football Club.[1] I colori della maglia li sceglie lui: rosso e nero, un po’ perché sono i colori del Forest, un po’ perché i milanisti dovranno essere dei diavoli e fare paura a tutti. E un po’ perché tra Kilpin e amici d’oltremanica pare che papi, chiese e preti non vadano per la maggiore.
L’adesione del Milan alla F.I.F. fa di Kilpin un forward, un allenatore, ma anche un arbitro. E anche nella sua carriera di fischietto gli aneddoti non mancano. Ne usiamo uno come trait d’union. Partita tra Torino e Genoa, ma non è dato sapere quale. Per la prima volta in Italia si usano i linesmen, cioè i guardalinee. Kilpin fa il referee. Comincia a piovere ed ecco che uno dei guardialinee si assenta e ricompare con un ombrello. Kilpin non ci sta a bagnarsi da solo e ordina al suo sottoposto di “soffrire l’intemperia” come lui. A parte la scenetta improbabile, la cosa curiosa è che quel guardalinee è nientemeno che Enrico Canfari, uno dei fondatori della Juventus, nonché futuro presidente dell’Associazione Italiana Arbitri. Uno che è arrivato al football da tutt’altra strada, ma che ha messo per iscritto, come Kilpin, le memorie dei suoi primi passi.

Una formazione della Juventus in tenuta rosa (1900 ca.)

Una formazione della Juventus in tenuta rosa (1900 ca.). Enrico Canfari non c’è

Così scopriamo che quando Enrico, suo fratello Eugenio e altri studenti del Liceo Ginnasio d’Azeglio di Torino decidono nel 1897 di dar vita a una società sportiva, scoppia subito “un tumulto” per la quota di iscrizione prevista, sei lire al mese! E pensare che quei soldi non riescono neanche a coprire le spese per lo stabile che i Canfari hanno scovato e che serve loro come palestra. Il riscaldamento, infatti, va a “refurtiva […]: ogni socio è invitato a portarsi per le sedute qualche pezzo di carbone in tasca”. Qualche mese dopo arriva anche l’ingiunzione di sgombero e la necessità di trovare un’altra sede. I soci provengono, infatti, da famiglie benestanti, ma non hanno ancora raggiunto la ventina e, probabilmente, di soldi reali in tasca ne hanno pochi.
La pagina più bella è, però, riservata alla scelta del nome. All’inizio ne “fioccano di tutti i generi: floreali, Iris club; […] telegrafici, Società Polisportiva Augusta Taurinorum; […] Forza e Salute, Vigor et Robur, ormai retaggio delle pillole ricostituenti.” In finale arrivano Società Via Fort, Società Sportiva Massimo d’Azeglio e Sport Club Juventus. E a vincere è quest’ultimo solo perché le prime due sono le proposte con più sostenitori, ma anche con più detrattori.

Anche la scelta della prima divisa (“un percalle sottile e roseo”) per l’esordio della sezione football ha il suo perché: il costo di sole 0,70 lire al metro. Corredata poi di “un berettino di piquet bianco alla savoiarda, fascia nera alla cintura, pantaloncini neri, cravatta dello stesso colore”. Un ensemble su cui lo stesso Enrico Canfari ironizza a meno di quindici anni di distanza.
Lo scritto che il giornale Il Football  pubblica è, infatti, datato settembre 1914, poco prima dello scoppio della Grande Guerra che vede Canfari partire come volontario. La data è però quella dell’11 marzo 1916, perché quella stessa guerra riserva al primo presidente della Juventus un futuro da capitano, ma senza ritorno.
Benché lontano dal fronte e dalla necessità del supremo sacrificio, il 1916 è anche l’ultimo anno di vita di Herbert Kilpin. Un’altra analogia che intreccia ancor di più gli inizi delle due più titolate squadre italiane.

federico
I virgolettati sono tratti da Football 1898-1908, L’Età dei Pionieri, Fondazione Genoa 1893, pagg. 71-73, 81-87

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[1] Tra i soci italiani figurano Piero e Alberto Pirelli, appartenenti alla nota famiglia di industriali della gomma che nel corso del XX secolo cambierà decisamente squadra preferita