Sono le 23 di lunedì 10 giugno [1968]: da tempo la notte, una notte stellata, tiepida e densa di umori dopo la giornata di pioggia, è scesa sulla città deserta, ma qui, nel catino dell’Olimpico, sembra di essere in pieno giorno. Alle luci dei riflettori si aggiungono infatti le fiamme vivide e saltellanti delle fiaccole mentre i bengala rossi, verdi e azzurri si incrociano in una sarabanda di scoppi
L’articolo si intitola “La rinascita è cominciata, ora bisogna completarla”. Il riferimento è alla sofferta vittoria dell’Europeo da parte dell’Italia, il primo vero successo dopo l’era Pozzo. Il quotidiano, su cui compare, riporta in prima pagina richiami alla DC in cerca di numeri per un nuovo governo, al giallo dell’uccisione di Robert Kennnedy, a una manifestazione di contadini contro il MEC e, in un occhiello, all'”impegno dei comunisti italiani e romeni per il rafforzamento dell’unità antimperialista”.
Né Stampa, né Corriere della Sera, il pezzo è, infatti, preso da L’Unità, pur se il cenno al bianco, rosso e verde nell’incipit spingerebbe a pensare diversamente.
Come sottolineano Papa e Panico nella loro Storia sociale del calcio italiano, anche quanto accade per le strade italiane la notte del 10 giugno 1968 “ha un che di insolito”. Non è tanto l’idea dei tifosi in piazza, a suonare i clacson fino a tarda notte, è “l’esplosione di un patriottismo per certi versi imprevedibile” che sorprende, una voglia di agitare il tricolore in cui, evidentemente, anche i lettori-tifosi e i giornalisti-tifosi de L’Unità si ritrovano. Una voglia di veder vincere l’Italia che pare abbiano anche alcuni degli studenti che in quel momento occupano le facoltà universitarie, stando a un’intervista rilasciata da Capanna, il leader di Lotta Continua, a Tuttosport una ventina di anni fa.[1]
Infatti, a seguito dello scoppio del movimento di contestazione giovanile e dell’arrivo del Sessantotto anche in Italia, il sentimento di appartenenza nazionale -continuano Papa e Panico- aveva ricevuto un grosso colpo e le parole ‘patria’, ‘nazione’ stavano, persino, scomparendo dal linguaggio politico, sostituite dalla parola più neutra ‘paese’.
Il mondo del pallone era, però, rimasto un po’ avulso da questi cambiamenti, che interessavano la società e si stavano riflettendo nel modo di pensare, vestire, vivere, fare politica di un’intera generazione. Il caso di Gigi Meroni, che aveva rifiutato di tagliarsi i capelli quando convocato in nazionale, era rimasto isolato. Tra l’altro, lo sfortunato Gigi era uno ben noto nell’ambiente per essere uno che aveva un modo di vivere anticonformista, ma si allenava tanto. Non corrispondeva, pertanto, né allo stereotipo del ‘capellone’ che non ha voglia di lavorare, né a quello del calciatore alla Best che se ne frega di tutte le regole.
Il mondo del pallone negli anni Sessanta non si ‘mischiava’, quindi, con la politica, ma era vero anche il viceversa. I tempi in cui Mussolini aveva fascistizzato il calcio erano ben lontani, lo sport era tornato un terreno apparentemente neutro, legato al tempo libero, e nessuno allora si sarebbe mai sognato di fondare un partito col nome Forza Italia o di parlare agli italiani con metafore care al linguaggio del calcio per farsi eleggere. Anche perché, aggiungiamo, con trent’anni di disastri della nazionale alle spalle, c’era ben poco da salire sul carro dei vincitori.
Inoltre, come si evince dal già citato libro di Papa e Panico, la maggior parte degli intellettuali preferiva occuparsi di altro e dava al mondo del calcio ‘in sé’ poco peso. Lo considerava come passatempo non degno di riflessioni alte o, peggio, come potente arma di distrazione di massa. Oppure lo derubricava ad ambito cui applicare concetti tipici dell’analisi marxista quali alienazione, divisione del lavoro, aumento della produttività, senza, però, interrogarsi su quelle specificità che lo avevano reso un fenomeno sociale di così larga portata.
Un atteggiamento snobistico, che sarebbe continuato per molto tempo (vedi il gruppo in fuga a Capalbio durante Italia ’90) e che secondo noi spiega, più di ogni altra cosa, perché già in quel giugno 1968 gioire per una vittoria dell’Italia del pallone e agitare, a tale proposito, la bandiera tricolore era comunque possibile, anche per chi era ‘di sinistra’. O, forse, fa capire perché poi il movimento del ’77 annoverava tra gli avversari tutti i partiti istituzionali, PCI compreso.
Senza perdersi nell’analisi del complesso rapporto tra sinistra italiana e pallone -argomento che avrebbe, innanzitutto, bisogno di una conoscenza approfondita che noi al momento non abbiamo- chiudiamo con una considerazione.
Siamo abituati a pensare che, almeno fino alla già citata “discesa in campo” di Berlusconi, episodi in cui destini politici dell’Italia e grandi avvenimenti sportivi si siano intrecciati non ci siano stati, con l’unica eccezione forse per la vittoria del “pio” Gino Bartali al Tour de France del 1948 che contribuì a non fare scoppiare la rivolta a seguito dell’attentato subito da Togliatti secondo una narrazione abbastanza in voga pur se non suffragata dai documenti storici.
Siamo abituati a pensarlo perché in Italia tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta difficilmente il mondo della cultura o la società dava allo sport, in generale, e al calcio, in particolare, il suo giusto peso come terreno politico e/o diplomatico. Per questo l’immagine di Sandro Pertini, presidente della Repubblica ed ex partigiano, che gioisce sugli spalti del Santiago Bernabeu per la vittoria mondiale dell’Italia di Bearzot, è un simbolo in cui quasi tutti si riconoscono, al di là del loro orientamento politico.
federico
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[1] Calcioromantico è abituato a dare riferimenti precisi, ma ahimé nel mio archivio non riesco a ritrovare la pagina di giornale con l’articolo in questione