I Mondiali di atletica leggera 2019 sono stati una finestra su quello che potrebbe accadere da lì a tre anni a Doha e una scusa per approfondire alcune delle criticità che avrebbero dovuto/potuto portare alla riassegnazione dei Mondiali di calcio del 2022. Per questo vi presentiamo una sorta di articolo lungo diviso in parti, che poi è ispirato a quanto detto su Lautoradio in occasione della prima puntata della seconda stagione del nostro programma radio-web La Fascia Sinistra.
Qui la PRIMA PARTE, qui la SECONDA PARTE.

Il Qatar, tra sportswashing e ius pecuniae.
Il termine “sportswashing” al momento non ha forse la stessa diffusione dei suoi compari di suffisso “greenwashing” o “pinkwashing”, ma rende bene l’idea. Parliamo di soft power, ovvero di potere che persegue obiettivi senza usare la forza militare o economica, affidandosi, invece, alla capacità di attrarre capitali, soldi che nel caso dei washing hanno un tramite (le grandi manifestazioni sportive, una rinnovata politica energetica o lo sbandieramento di maggiori diritti per le donne), ma che di fatto vogliono ripulire l’immagine che ha all’esterno un paese all’interno del quale i più elementari diritti civili della popolazione o di una parte di essa sono tutt’altro che rispettati.
Come osserva un articolo dell’Irish Times l’utilizzo politico dello sport è vecchio come lo sport stesso, ma «il termine [sportswashing] è dovuto alla campagna del 2015 Sports or Rights, un invito a smascherare il tentativo dell’Azerbaijan “di distrarre da quanto accade nel paese a proposito dei diritti umani attraverso prestigiose sponsorizzazioni [vedi Atletico Madrid] o organizzazioni di eventi” come i Giochi Europei di Baku [o il Gran Premio di Formula 1]». A parte la repubblica caucasica dell’ex URSS, che ha ospitato la finale di Europa League del 2019 e sarà sede di alcuni match della fase finale di Euro 2020, giusto per far capire come tale indirizzo politico sia ancora di attualità, ad aver fatto dello sportswashing un vero credo sono stati soprattutto stati come Arabia Saudita e Qatar, che di fatto sono monarchie assolute. Con il beneplacito della FIFA, che, come dice la giornalista del Guardian Marina Hyde, «rimane il servizio di “lavanderia” più costoso del mondo».

Questa strategia di servirsi dello sport a fini interni ed esterni non può, però, prescindere dall’ottenere dei risultati, perché perfette organizzazioni e lussuose accoglienze vanno bene per chi alle manifestazioni partecipa, ma gli atleti in grado di vincere diventano automaticamente testimonial e continuano a riprodurre un’immagine positiva della nazione cui appartengono anche oltre il momento della competizione.
Per chi, come il Qatar, con i proventi del petrolio è abituato a comprarsi tutto, il modo di costruirsi nell’immediato qualche campione di livello internazionale è stato facile. Una naturalizzazione per ius pecuniae, potremmo dire. Già all’Olimpiade di Sydney, nel 2000, il sollevatore Said Saif Asaad, nato bulgaro con il nome di Angel Popov portò una medaglia di bronzo all’emirato del golfo. Con lui altri sette pesisti bulgari avevano sentito questa improvvisa voglia di cambiare nazionalità.
Per quanto riguarda l’atletica leggera, i qatarioti nel 1992, a Barcellona, colsero un bronzo nei 1500m con Mohammed Suleiman e adesso hanno un grande campione come Barshim. In concomitanza, però, con lo sbarco a Doha nel 1998 di una tappa dell’allora IAAF Grand Prix, ora Diamond League, la necessità di avere qualche atleta di livello per cui far tifare evidentemente si pose e fu risolta in modo simile a quanto fatto nel sollevamento pesi. Il ventenne kenyano Stephen Cherono era già una grande speranza del mezzofondo quando nel 2003 diventò Saif Saaeed Shaheen e a Parigi Saint-Denis, con i colori del Qatar, diede vita a una pazza dei finale dei 3000 siepi, trionfando in volata sul suo ex connazionale Ezekiel Kemboi. Il New York Times scrisse che un milione di dollari avevano convinto Shaheen al cambio di bandiera, anche se lui ha sempre negato. Da notare che Shaheen si sarebbe riconfermato ai Mondiali di Helsinki nel 2005, ma non sarebbe riuscito a far salire il Qatar sul podio olimpico.

Il vero orribile capolavoro di questa pratica di acquisizione è però datato 2015. La Nazionale qatariota di pallamano maschile esiste dal 1983 e dal 2003 partecipa con continuità ai Mondiali, ma il 2015 ha rappresentato per tutti un’occasione unica. La manifestazione era, infatti, ospitata tra Doha e Losail. Grazie a una regola della federazione internazionale, che consentiva di giocare per un altro paese a chi negli ultimi tre anni non avesse disputato partite con la propria Nazionale, in quell’occasione tre giocatori montenegrini, due egiziani, due bosniaci, due siriani, un francese, un cubano, uno spagnolo, un iraniano, un tunisino e uno proveniente dagli Emirati Arabi hanno difeso i colori del Qatar. Di qatarioti di nascita in rosa ce n’erano solo tre…
La federazione non badò a spese e pagò anche un gruppo di 60 tifosi spagnoli, offrendo soggiorno tutto spesato in cambio di supporto continuo sugli spalti. Qualche maligno disse che erano stati pagati anche gli arbitri, fatto sta che la multinazionale Qatar arrivò all’argento, sconfitta solo dalla Francia in finale.

E il calcio?
Come già detto, una delle mille obiezioni all’assegnazione dei Mondiali FIFA 2022 al Qatar era relativa alla poca storia calcistica che il paese aveva dietro di sé. Non solo per l’assenza di qualificazioni a fasi finali della rassegna iridata, ma anche per la relativa poca competitività all’interno della propria Confederazione.
C’è, però, da dire che, almeno da questo punto di vista alla FIFA, è andata bene: nel 2019, a nove anni di distanza dal momento dell’assegnazione dell’organizzazione della Coppa del Mondo, la Nazionale qatariota di calcio ha vinto con merito la Coppa d’Asia, manifestazione in cui non era mai andata oltre i quarti di finale, nel 2000 in Libano e nel 2011, nell’edizione ospitata in casa.
Viste come sono andate le cose con altri sport, la domanda più che lecita è: sì, ma quanti naturalizzati c’erano nella rosa? Certo Ali Amoez, il più forte del gruppo e autore in finale contro il Giappone di un bellissimo gol, è un ex-sudanese, ma in fondo solo quattro[1] degli undici schierati dal primo minuto in finale dall’allenatore Felix Sanchez non sono nati in Qatar. Una roba accettabile di questi tempi e a quelle temperature…

federico

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[1] Gli altri tre erano: Khoukhi, algerino di nascita, Pedro Miguel Carvalho Deus Correia, meglio noto come Ró-Ró, ex portoghese, e Assim Madibo, di origini maliane