Il Calcio alle Olimpiadi. 1° puntata: Uno sguardo d’insieme

Il calcio alle Olimpiadi è un ossimoro, una contraddizione in termini o, per dirla in modo più soft, è «una storia d’amore contrastato e, spesso, non corrisposto»1. Guardando a ciò che è accaduto dagli anni Trenta del secolo scorso in poi e restringendosi al solo calcio maschile, non si può che essere d’accordo. Nel corso dello special ci sarà agio di raccontare tutto con dovizia di particolari. È però opportuno dare un iniziale sguardo d’insieme sulla vicenda per capire, già in partenza, perché questo rapporto tra pallone e cinque cerchi non sia stato mai definitivamente interrotto e continui tuttora.

Quando nel 1894 il neonato CIO decise di organizzare con cadenza quadriennale una manifestazione multisportiva di respiro internazionale, la FIFA ancora non esisteva e solo oltremanica il football association era qualcosa di serio, con coppe o campionati riservati ai club e incontri tra Nazionali che si disputavano con regolarità da una ventina di anni e una inevitabile virata verso il professionismo che era già avvenuta.
Il CIO era, però, presieduto dal barone Pierre De Coubertin, che era anche segretario della USFSA (Union des Sociétés Françaises de Sports Athlétiques), federazione che in Francia stava fungendo da collettore. Se, infatti, era nata nel 1888 come USFCP, Union des Sociétés Françaises de Courses à Pied, con l’obiettivo di organizzare i primi campionati nazionali francesi di atletica, ben presto l’associazione si era presa in carico i due nuovi giochi con la palla che arrivavano dall’Inghilterra (football rugby e, appunto, football association) e di lì a qualche anno avrebbe anche aperto a nuoto e hockey su prato. Il rugby già nel 1892 aveva assegnato il primo titolo francese; al calcio toccò, invece, proprio in quel fatidico 1894.

Vista l’importanza del ruolo svolto da De Coubertin in seno alle due organizzazioni, per il CIO era solo una questione formale considerare degni di far parte della nuova competizione quadriennale chiamata Olimpiade tutti gli sport di cui l’USFSA si occupava. Calcio compreso. C’era, però, a monte una pregiudiziale che USFSA prima e CIO dopo avevano fatto propria in nome di una ipocrita distinzione che nascondeva il tentativo delle classi più agiate di difendere in ambito sportivo un privilegio acquisito: gli atleti che volevano partecipare ai Giochi olimpici dovevano essere amateur, cioè non dovevano aver mai ottenuto compensi per la propria attività sportiva.

Ora, per chi si cimentava in discipline individuali, decidere se partecipare a una Olimpiade, sacrificando magari alcune settimane del proprio lavoro, diventava una scelta anch’essa individuale. Per giocare a pallone, invece, di persone ne servivano almeno undici per ogni squadra e per avere un torneo che fosse un minimo serio e di respiro internazionale, di paesi partecipanti ne servivano almeno quattro. Le rappresentative nazionali ancora non esistevano e, quindi, il tutto ricadeva sui club, per i quali affrontare una trasferta di chissà quanti giorni per andare a giocare ad Atene o a Parigi poteva diventare proibitivo. E poi in Francia, Germania, Belgio o Italia erano quasi esclusivamente gli appartenenti alla classe media a esser stati attratti dal nuovo gioco en plein air, a differenza di quanto era accaduto in Inghilterra.
Con queste premesse, era davvero difficile che l’amore tra calcio e Olimpiade potesse scoccare. Quando, però, nacquero la FIFA e, quindi, il concetto stesso di Nazionale (1904), le cose cambiarono. Seguì un periodo di proficua collaborazione con il CIO, tanto che dal 1920 al 1928 i vincitori dell’oro olimpico vennero insigniti anche del titolo di campioni mondiali amateur.
In realtà, il vero distacco avvenne proprio alla fine degli anni Venti del secolo scorso, nel momento in cui la federazione internazionale decise di mettersi in proprio e iniziò a organizzare la Coppa Rimet. Galeotta fu una discussione in merito ai diritti degli atleti amateur e non poteva essere altrimenti. Coppa del Mondo e Olimpiadi presero due strade diverse, ma accanto a questa inevitabile divergenza ci fu una convergenza (a proposito di contraddizioni): il calcio restava sport olimpico, il torneo disputato nel corso dei Giochi continuava ad essere riservato a Nazionali composte da calciatori amateur o dilettanti (dizione usata in Italia), solo che ogni federazione aveva la possibilità di scegliere cosa questa dizione volesse dire, visto che la FIFA non dava più indicazioni in merito.
Cominciò così l’era dei professionisti dilettanti e degli amateur professionisti: nazioni come l’Italia o la Francia portavano alle Olimpiadi le Nazionali giovanili, composte quindi da giocatori che giocavano già in club di primo livello, ma che erano “dilettanti” se confrontati con quelli della Nazionale maggiore; Ungheria, URSS o Germania Est schieravano, invece, le Nazionali vere e proprie, perché da loro il professionismo non esisteva e i calciatori erano da considerare dipendenti dello Stato.

Da Barcellona 1992 il veto agli sportivi pro è finalmente caduto, ma le cose per il calcio maschile non sono cambiate. Anzi, si è ufficializzata la regola secondo cui a partecipare al torneo olimpico debbano essere gli Under 23, con l’eventuale ausilio di tre fuori quota. Nel torneo femminile, introdotto a partire dal 1996, questo vincolo non c’è. Sarebbe, quindi, lecito considerarlo una spanna sopra quello riservato agli uomini. Eppure le squadre che vi partecipano sono dodici, quattro in meno di quanto accade al maschile… E in fondo anche questa è una contraddizione. O no?

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