Appunti da Qatar 2022 per il futuro, per ricordare meglio cosa il Mondiale più controverso ha consegnato alla storia e alla cronaca. Quinta puntata: Gli arbitraggi

Il Mondiale del 2018 aveva visto il debutto del VAR in un momento in cui Serie A e Bundesliga lo avevano adottato, Champions League, Premier League e Liga ancora no. L’impatto complessivo era stato giudicato positivamente da chi scrive, specie perché in situazioni simili le crew arbitri+VAR erano sembrate comportarsi in modo coerente. Non a caso uno abituato a fare di testa propria come il turco Çakir aveva combinato disastri in Argentina-Nigeria, mentre persone meno note in Europa come l’argentino Pitana, l’iraniano Faghani, il senegalese Diedhiou avevano offerto prestazioni spesso irreprensibili.

L’impressione di fondo (sempre a giudizio di chi scrive) è che, anche in questo Mondiale, la qualità media degli arbitraggi si sia attestata su un livello accettabile, garantendo una certa uniformità di giudizio, soprattutto se confrontata con i disastri di alcuni match dei Mondiali di fine anni Novanta/inizio Duemila i cui direttori di gara sembravano provenire da altri pianeti.
Il fuorigioco semiautomatico ha cancellato quasi del tutto i dibattiti sull’off-side. Unico grande dubbio il gol annullato a Griezmann al termine della comunque ininfluente Francia-Tunisia, anche se l’errore più grave imputabile al fischietto neozelandese Conger è stato quello di far riprendere il gioco dopo aver fischiato la fine1.
Si è confermato un basso numero di espulsioni: solo quattro, come nel 2018, due delle quali per questioni non direttamente legate al match (Aboubakhar in Brasile-Camerun, secondo giallo per essersi tolto la maglia dopo il gol vincente; Dumfries ammonito due volte da Lahoz in Olanda-Argentina a rigori già tirati), una inevitabile (il portiere Hennessey in Iran-Galles) e una un po’ affrettata (due gialli in un minuto a Cheddira in Marocco-Portogallo). I rigori concessi sono stati, invece, 21 (15 realizzati, 6 no), rispetto ai 29 di quattro anni fa quando i primi passi del VAR portavano a considerare fallosi interventi ancor più veniali.
Certo, su come siano stati gestiti i gialli nel corso di alcuni match del Mondiale particolarmente duri e sul perché alcuni rigori siano stati accordati e altri no (e sul perché il VAR sia stato a volte silente, a volte troppo invadente) ci sarebbe da scrivere abbastanza. Il fatto è che, a fronte di una più uniforme gestione dei match da parte della classe arbitrale (obiettivo primo che una grande manifestazione deve porsi), la sensazione di fondo che alcuni giocatori (e rispettive squadre) fossero più protetti di altri ha accompagnato tutto lo scorrere del torneo. E forse c’è un perché.

Prima che la Coppa del Mondo prendesse il via c’era qualche timore che il Qatar, inteso come squadra, potesse arrivare lontano sfruttando opportune spinte, un po’ come fece la Corea del Sud venti anni fa. Il livello mostrato dalla Nazionale di Sanchez è staro, però, così basso che anche vincere un incontro era un miraggio e, comunque, a onor del vero, quando sullo 0-0 nel match contro il Senegal i qatarioti hanno chiesto un “rigorino” per tocco su Afif in area, lo spagnolo Lahoz non lo ha concesso!
Quello che mi sfuggiva è che la vera squadra di Al Thani è il Paris Saint Germain, una compagine trasversale che poteva contare su icone come Neymar, Mbappé, Messi. Ebbene, se i verdeoro non hanno subito trattamenti di favore (anzi, Neymar i serbi lo hanno potuto picchiare per bene), per la Francia di Mbappé non si può dire la stessa cosa. In particolare, i transalpini sono sembrati godere di una sorta di area di protezione da parte del direttore di gara -il brasiliano Sampaio- nel quarto contro l’Inghilterra, anche al di là dei singoli episodi, già di per sé indicativi (non sanzionato fallo di Upamecano su Saka, da cui si origina il vantaggio francese; ignorato fallo dello stesso Upamecano su Kane al limite dell’area; secondo rigore per gli inglesi concesso solo dopo richiamo VAR). In semifinale con il Marocco, poi, il giallo per simulazione a Boufal, appena messo giù da Theo Hernandez in area, ha lasciato dubbi sull’operato congiunto di arbitro (Romero) e VAR (e si era sull’1-0 per la Francia).
Ad ogni modo, l’occhio di riguardo riservato alla Francia è nulla in confronto a quella sfera di intoccabilità che è sembrata accompagnare Messi e compagni da inizio Mondiale. Il rigore preteso dal VAR in Argentina-Polonia, per un’uscita di Szczesny che tocca appena la testa di Messi, è emblematico, ma il massimo del fastidio si è raggiunto nel quarto tra orange e albiceleste, in cui Matheu Lahoz che ha più volte bloccato azioni di ripartenza degli olandesi, ha evitato di ammonire Messi per un evidente fallo di mano nel primo tempo e non ha espulso Paredes nella ripresa per condotta antisportiva (un pallone scagliato contro la panchina olandese), pur dispensando gialli a destra e a manca2

Sia ben chiaro, francesi e argentini sono arrivati in finale in gran parte per merito proprio e, a conti fatti, il successo finale dell’albiceleste è indiscutibile. Quello che, però, fa pensare è che, tra Messi e Mbappé, l’emiro Al Thani avrebbe sempre avuto a disposizione un ricco e remunerato dipendente da vestire sul podio del Mondiale con il bisht, il mantello tradizionale in uso nel mondo arabo3.

Puntate precedenti: OneLove, ma non a Doha e dintorni; Stephanie Frappart e la storia diretta (e interpretata) dalla FIFA; Tra tradizione e sostenibilità: la narrazione degli stadi di Qatar 2022; Il mondo agli ottavi, la CAF in semifinale, le solite in finale
Puntata successiva: La vittoria finale e i compiti per il futuro